Di questo viaggio mi mancheranno i grandi spazi, il bianco dei ghiacciai e il verde delle montagne, il blu cobalto dei laghi.
Mi mancheranno l’odore del gel igienizzante per le mani nelle toilette (o sarebbe meglio chiamarle “pozzi”) all’interno dei parchi nazionali, i “take care” dei canadesi, il sapore affumicato del beef jerky.
Mi mancherà quella sensazione di contatto totale con la natura, il motore che spesso muove i nostri viaggi, chilometri su chilometri anche solo per scattare una foto a un cervo, perché allora sì che ne sarà valsa la pena, al punto che una giornata senza vedere animali selvatici diventerà quasi una giornata sprecata.
Ci sono partenze che in qualche modo ti rigenerano, ti portano via con il corpo e con la mente, e per fortuna!, soprattutto quando dietro ti lasci il dolore, quello attonito e senza parole, che ogni morte improvvisa porta con sé.
Questo viaggio tra Canada e Stati Uniti, tra Alberta e Montana, ci ha regalato per due settimane il lusso della distrazione, l’ingenua sensazione che tutto sarebbe rimasto uguale a prima, aiutandoci a scacciare, per un momento, il pensiero del ritorno nella nostra casa, vuota.
Partiamo il 22 agosto, muti, stanchi e ancora con l’odore della clinica veterinaria addosso. Destinazione Calgary, con scalo di una spicciolata di ore a Montreal.
La compagnia che ci traghetterà oltreoceano è la Air Canada, supportata nelle sue tratte brevi dalla Rouge, la low cost della stessa bandiera.
Aerei molto comodi, spazio per le gambe e un programma di intrattenimento costellato di film di ultimissima uscita.
Arriviamo a Calgary che è quasi mezzanotte (otto ore in meno rispetto all’Italia) e sotto una pioggia leggera chiamiamo un taxi e raggiungiamo il nostro primo albergo per due notti, il Carriage House Inn.
È in corso una festa di matrimonio in una delle sale meeting al pian terreno.
Una tizia con più alcool nelle vene che anima chiede al receptionist se ci sono camere libere per stanotte. Dice che si informa per la madre, ma mi viene il dubbio che voglia portarsi su il ragazzo che la accompagna, probabilmente rimorchiato al momento. Fortunatamente si accorge che c’è un bambino con noi e ci fa passare avanti per il check-in, interrompendo bruscamente la contrattazione.
L’hotel è di quelli classici in stile prettamente americano, con letti grandi e altissimi che ti fagocitano al primo assaggio e abbondanti colazioni a base di uova e pancetta.
Passiamo il primo giorno a esplorare Calgary.
Un taxista ci dà un passaggio fino all’Heritage Historic Centre, non lontano dal nostro alloggio.
Durante il breve viaggio ci spiega come Calgary sia diventata una città di white collars grazie alla scoperta del petrolio, talmente abbondante che sottoforma di sand oil si riusciva a raccogliere semplicemente a mani nude.
L’Heritage Historic Centre è un meraviglioso parco interamente ricostruito in stile old western.
Ero molto scettica sulla validità di questa visita, temevo fosse troppo finta e artificiosa, invece è stata una esperienza interessante.
Tutto, ma proprio tutto è o ricostruito o restaurato fedelmente, dalle pompe di benzina, al Museo delle Automobili, dal treno a vapore, originale del 1837, rimesso a nuovo e che ancora permette un giro lungo il parco, ora fermandosi ad un accampamento degli indiani, ora a una fattoria, ai costumi del personale al lavoro.
Una parte del parco è adibita a luna park e anche qui sono state restaurate vecchie giostre meccaniche di ferro smaltato e legno dipinto a mano, che con semplici principi di fisica sanno ancora come far divertire. C’è poi il vecchio saloon dove un collezionista ci mostra il suo pianoforte originale con la famosa scritta “Don’t shoot me, I’m only the pianist“, la vecchia scuola, con i banchetti pesanti di lavagna, tanto da farmi tornare in mente alcune pagine del libro Cuore, l’emporio di dolciumi pieno di potishe di ogni forma e colore.
La mattinata vola.
Prendiamo una navetta che ci porta alla stazione metro più vicina, quindi siamo in centro.
Il Downtown di Calgary ha la particolarità di poter essere esplorato all’interno di una rete di corridoi sopraelevati rispetto al suolo stradale che collega tra loro edifici e quartieri proteggendo gli abitanti dal freddo e il ghiaccio invernali.
Avevamo visto una cosa simile solo a Montreal qualche anno fa, gallerie sotterranee, in quel caso, e riscaldate adibite allo stesso scopo.
Fotografiamo The Bow, un grattacielo dall’aspetto avveniristico che nella sua forma ricorda proprio un arco.
Con la sua altezza di oltre 200 metri è il terzo grattacielo più grande del Canada e oggi ospita gli uffici di alcune multinazionali.
Davanti la porta d’ingresso troneggia una scultura metallica, si chiama Wonderland Sculpture.
E’ alta 12 metri e rappresenta il volto di una ragazza. Nel suo gioco di pieni e di vuoti, sembra quasi assorta nei suoi pensieri guardando il downtown all’orizzonte.
L’artista è Jaume Piensa, spagnolo, che ha anche creato opere per alcune piazze importanti di New York e di Chicago.
La Calgary Tower la vediamo da qui con i suoi 191 metri.
Un tempo chiamata “Husky Tower”, nome che ricorda la fortuna della città legata indissolubilmente ai combustibili, ha un aspetto solido e massiccio, per nulla attraente, tanto da farci desistere all’idea di salirvi su in cima per qualche panoramica dall’alto.
Prendiamo per Chinatown.
La comunità di cinesi ma, in generale, di orientali in questa parte del Canada è molto presente e unita, e Calgary non fa eccezione.
Entriamo in un piccolo mall dove tutto è in caratteri cinesi.
Tra dragoni e lanterne, sono stati radunati negozietti che vendono paccottiglia kitsch, cibo cinese, ristoranti e minuscole lavanderie tra le persone anziane che si radunano qui per fare due chiacchiere in lingua.
Prendiamo qualcosa da bere, quindi usciamo per una passeggiata nel parco di Prince’s Island, splendido cuore verde della città che costeggia il Bow River.
Ci aspettavamo molto poco dalla città che ospitò i Giochi Olimpici Invernali del 1988. Se non ci ha lasciato un ricordo indimenticabile, sicuramente non ci ha deluso.
Il terzo giorno prendiamo la macchina da un punto noleggio Dollar non troppo distante dall’albergo.
Ci danno una Jeep come quella che guidava Mc Gyver che si rivelerà comodissima, anche se delle quattro ruote motrici e del tettuccio apribile non ce ne faremo granché.
Ci aspettano una marea di chilometri fino al Parco di Jasper, così ci mettiamo in cammino lungo l’unica via percorribile per raggiungerlo da Calgary, la Highway 1, di certo una delle strade più belle da noi percorse in macchina.
Il panorama dai nostri finestrini cambia di continuo, svelando ora fiumi impetuosi che diventano poderose cascate, laghetti dall’aspetto tranquillo circondati da fitte foreste, alte cime innevate e pendii ripidi che lasciano immaginare antiche valanghe che avranno di certo sconvolto tutto il paesaggio.
Ci fermiamo per il pranzo al Saskatchewan Crossing, ultimo avamposto di civiltà, dove le temperature ci spingono a scegliere una zuppa calda.
Arrivati all’ingresso del parco paghiamo il pass di circa 10 dollari, ma per arrivare al nostro prossimo alloggio nell’unica città nei paraggi, Jasper Town, dobbiamo impiegare ancora un’ora di macchina.
Jasper, all’interno dell’omonimo Parco Nazionale, ha l’aspetto delle cittadine di montagna veraci, quelle senza troppi fronzoli o accenni di eleganza, dove la gente si dedica all’outdoor puro e al campeggio in tenda. Sulla Main Street affacciano negozi di abbigliamento sportivo, bar, una spicciolata di ristoranti e negozi di souvenir, un grocery store, l’unico, dove poter fare qualche provvista. Dietro la Main Street ci sono le abitazioni, i motel, gli inn. Davanti la ferrovia della Canadian Pacific Railway dove scorrono lunghissimi treni merci, davvero, non se ne riesce quasi a vedere la fine, che partono chissà da dove e arrivano chissà dove, in un tortuoso quanto affascinante viaggio nella natura. Oltre i binari del treno, se si ha la fortuna di non incappare in qualche infinito semaforo rosso al passaggio a livello, la wilderness più pura, che è là, ad attenderci fremente.
Quello a Jasper è stato l’alloggio più difficile da trovare. Poche strutture, alcune già piene per le date che ci interessavano, altre a prezzi troppo alti per il nostro budget. Finché non ci imbattiamo nel 2 Swans Inn.
Nella casa ad angolo di Aspen Crescent la famiglia Adriano ha ricavato due stanze con bagno privato nel loro basement. L’accoglienza è da albergo 5 stelle. Ci viene incontro una ragazza, avrà più o meno la nostra età, dandoci il benvenuto e mostrandoci subito la camera, grande, pulitissima, con un bagno nuovo fornito di tutto e un microonde che si rivelerà utilissimo nei prossimi giorni. Mentre Vale scarica i bagagli rimango a parlare in giardino con lei. E’ bello veder giocare Samuele con i suoi due figli di 8 e 3 anni, generosi al punto da portar fuori tutti i loro giochi per condividerli con il nuovo arrivato.
Clara abita a Jasper da 11 anni, ma loro sono originari delle Filippine. Si sono trasferiti per via del lavoro del marito, che ha una lavanderia in città. Ci spiega che gli inverni possono essere molto freddi e lunghi, spesso comincia a ghiacciare già dal mese di settembre, mentre la neve può durare fino a giugno inoltrato. Immagino questa famigliola nel caldo della loro casa mentre fuori ci sono temperature che possono arrivare a -40 gradi, isolati del tutto e con la città più vicina ad almeno un’ora di auto, con il bel tempo. Per loro deve essere fondamentale fare il più possibile vita di quartiere, coltivare il buon vicinato, frequentare la chiesa e le varie attività organizzate dalla comunità, per il rischio di non restare soli a impazzire davvero come in Shining. Una scelta di vita non facile che non credo avrei il coraggio di copiare.
Il primo giorno a Jasper ci svegliamo presto e con le mappe esaustive che i ranger ci hanno dato al casello e i consigli di Clara ci dirigiamo verso le escursioni che vorremmo fare oggi.
Prima tappa: Pyramid Lake.
Ci piacerebbe noleggiare una canoa, ma i due ragazzi del rental, con forte accento australiano (scopriremo in seguito che è usanza che i giovani australiani scelgano il Canada per lavorare nei mesi estivi in modo da potersi pagare la vacanza), ci dicono che in tre è possibile solo affittare una barca a remi, e così facciamo. Mezz’ora di vogate lente hanno reso romanticissima la gita su questo specchio d’acqua sormontato dalla mole della Pyramid Mountain all’orizzonte, già colorata di pennellate autunnali qua e là. In macchina ci spostiamo verso l’isolotto all’interno dello stesso lago, collegato alla terraferma da un ponte di legno costruito negli anni ’30. La passeggiata a piedi sulla Pyramid Island è un loop in realtà, molto facile e di soli 20 minuti, ma ci dà un’idea del territorio aspro eppur affascinante dove ci troviamo.
Seconda tappa: Cottonwood Slough.
Si tratta di una passeggiata in piano che costeggia il Patricia Lake. Parte da un parcheggio, dove due ragazzi stanno cuocendo uova per colazione, e a un certo punto si intreccia con un altro sentiero per una lunghezza totale di circa 5 km. Il fango spesso e fresco rende impraticabile l’ultima parte, così, ormai affamati, torniamo indietro per un picnic sulle sponde del lago Patricia.
Nel pomeriggio siamo pronti per la nostra terza tappa: l’Old Fort Point Trail.
Anche in questo caso si tratta di un loop di circa 4 km, non lontano dalla città di Jasper e vicino a un lago stupendo chiamato Beauvert.
Il sentiero parte da un parcheggio sulle sponde del fiume Athabasca e subito si inerpica in salita, portando ad alcuni tratti di ripidità e difficoltà impegnativi, anche per via delle condizioni climatiche, in continuo mutamento.
Dall’alto però verrete ripagati di una vista senza uguali!
Preferiamo non tornare indietro da dove siamo venuti, la discesa sarebbe ancora più vertiginosa e soprattutto scivolosa con la pioggerella che nel frattempo è scesa, così proseguiamo il loop inoltrandoci nei boschi, dove il silenzio è interrotto solo dal rumore dei nostri passi sul sentiero.
A fine giornata siamo stanchissimi. Stasera ceniamo con del pho da scaldare al microonde e tutti a nanna.
Il secondo giorno a Jasper ci mettiamo in macchina molto presto e ci spostiamo verso la parte nord ovest del parco.
Oggi ci dedichiamo a due delle escursioni più famose da fare a Jasper, ma prima la nostra alzataccia viene ripagata da un branco di splendidi alci intenti a bere e mangiare lungo la strada.
Con lo stupore che serpeggia tra i fortunati turisti di città come noi, non abituati a tali scene, ci fermiamo per qualche foto. Sono stupendi, non ne avevo mai visti così tanti e così da vicino. I maschi più anziani hanno un palco di bellissime corna ramificate sulla testa e brucano l’erba così, senza badare a noi, che comunque ci dobbiamo mantenere a una certa distanza, mentre le femmine, più snelle, si abbeverano nei paraggi respingendo riottose le avances di qualche maschietto più giovane.
La prima tappa di oggi prevede un’escursione al Maligne Canyon, un’autentica meraviglia della natura!
Scavato nella roccia nel corso delle ere geologiche grazie all’incessante e poderoso scorrere del fiume Maligne, il canyon oggi è profondo circa 50 metri, dando vita in alcuni tratti a gorghi e cascate di una bellezza spaventosa e prepotente.
La particolarità di questo fiume, denominato Maligno da un prete francese che si trovò a doverlo attraversare alla confluenza con l’Athabasca River, con spossante fatica a dorso del suo coraggioso cavallo, è che in certi periodi dell’anno scompare, continuando il suo percorso ipogeo all’interno di una caverna sotterranea che secondo gli esperti potrebbe essere la più grande presente in Canada.
In estate però lo si può ammirare in tutta la sua esuberanza fino a sfociare nel lago che porta il suo stesso nome.
Il Maligne Lake è la nostra seconda tappa per oggi.
Quando arriviamo il parcheggio è già pieno finché un signore si avvicina consigliandoci non solo di seguirlo per occupare il suo posto, ma anche di fare un giro in battello come hanno appena fatto lui e la moglie visto che ne vale davvero la pena. La sua auto è targata Friendly Manitoba… Quando si dice Omen Nomen.
Il Maligne Lake si trova a sud di Jasper, a circa 1600 metri di altezza.
Circondato da tre ghiacciai e sormontato da picchi suggestivi quali il Samson Peak e il Mount Paul, con i suoi 23 km di estensione è uno dei laghi a cui sono maggiormente affezionata.
Sarà che è stato il primo sul quale abbiamo affittato una canoa per un’ora intera, sarà per il picnic che abbiamo fatto sulle sue sponde in uno dei tanti punti attrezzati in mezzo a scoiattoli e pika, sarà per il bel sole caldo che è uscito nel corso della giornata, facendoci dimenticare i freddi 6 gradi della mattina, fatto sta che il Maligne Lake è stato il primo vero ricordo indelebile del viaggio.
Il terzo giorno lasciamo Jasper.
Col senno di poi forse avremmo dedicato un giorno in più a questo parco che con i suoi panorami aspri e selvaggi ci ha letteralmente graffiato il cuore.
Partiamo presto, come di consueto.
Mi verrebbe voglia di abbracciare Clara e ringraziarla di tutto, ma incontriamo solo Juliana e Theo, i suoi bambini, che timidi si affacciano ancora in pigiama bisbigliando che la mamma sta dormendo. Lasciamo la chiave a loro due, pregandoli di salutarci Clara. Quasi mi commuovo a vederli con le facce appiccicate alla finestra mentre ci salutano agitando le manine, finché non usciamo dal loro campo visivo.
Scendendo verso Banff ripercorriamo a ritroso la lunga strada fatta all’andata, fermandoci di tanto in tanto per immortalare qualche capra di montagna e le splendide Athabasca Falls, un incontro audace tra i fiumi Athabasca e Bow.
Quando arriviamo a Banff regna il caos.
Ovviamente la nostra attenzione si concentra immediatamente sulle due perle più famose del parco, Lake Louise e Lake Moraine, ma avevamo letto su forum e blog vari che quando i parcheggi sono pieni, come oggi, bisogna raggiungere i laghi con delle navette speciali.
Il guaio è che non si sa da dove partono queste navette speciali, ogni quanto, se sono gratuite o a pagamento e soprattutto non sappiamo dove è possibile parcheggiare la macchina, visto che i posti nel mall a valle sono tutti a breve sosta.
Passiamo al centro informazioni, dove una svogliata ragazza bionda e con il piercing a un angolo della bocca ci mostra con cartina alla mano come l’unico modo per salire a vedere Lake Louise in poco tempo sia seguendo il sentiero a piedi che in circa 50 minuti porta a destinazione.
La macchina conviene lasciarla nel parcheggio dietro una pompa di benzina Husky nei paraggi, mentre le navette sono degli scuola bus gratuiti che però partono dall’ingresso del parco, circa 5 km più a sud, con file per salire a bordo anche di due ore.
Per il Lake Moraine la faccenda è ancora più complessa perché il sentiero per arrivarci a piedi è lungo e impegnativo, mentre in macchina si può percorrere una sola strada che però viene immediatamente chiusa al traffico non appena i pochi parcheggi disponibili si esauriscono.
La strada cioè è ad accesso limitato, e non si sa quando potrebbe essere riaperta al traffico.
La ragazza al centro informazioni ci consiglia o di affittare una macchina privata per accedervi oppure di riaffacciarci dalle 19 in poi.
Lo scoramento si comincia a far sentire, lo ammetto.
Temo improvvisamente di non riuscire a vedere le due mete più iconiche del parco e, quando la stanchezza per il lungo viaggio in macchina comincia a farsi sentire, prendiamo il sentiero che si inerpica su in salita e in circa un’ora arriviamo a Lake Louise.
Fa caldo su in cima, il sole è una palla di fuoco che conforta e svela tutte le sfumature di turchese e di blu che mai avevo visto applicate a un lago.
Il ghiacciaio e le montagne che lo circondano mi ricordano dei genitori severi, ma protettivi nei confronti del loro delicato figlioletto offrendogli culla e riparo.
Sarebbe tutto magnifico (e lo è senz’altro dal punto di vista naturalistico e scenografico, anche grazie alla presenza dello storico ed elegantissimo Chateau Fairmont), se non fosse per la troppa gente.
Turisti ovunque, sulle panchine, sul molo, sulle canoe (che non abbiamo preso vista la fila e i prezzi assurdi per il noleggio, 175 dollari per mezz’ora!), davvero dopo qualche foto comincio a diventare insofferente.
Ci mettiamo in fila per prendere lo scuola bus che ci riporterà a valle, facciamo un po’ di spesa per i prossimi giorni al mall, quindi ci riaffacciamo per vedere se hanno riaperto la strada per accedere a Lake Moraine.
Un addetto al traffico ci dice che ancora non si può salire, ma non riusciamo a capire il perché visto che vediamo fisicamente alcune macchine scendere, così ci appostiamo in un’area picnic proprio dirimpetto al fatidico incrocio e al momento opportuno saliamo anche noi.
A parte questa enorme mancanza di comunicazione e organizzazione, la via che conduce al Lake Moraine e il lago stesso sono stupendi!
Verde e con uno splendido sentiero che si apre sulla sponda destra del lago e nel bosco che lo circonda, il Moraine è una perla rara.
C’è un lodge immerso nell’ombra degli abeti con affaccio privilegiato su tutto questo.
Quasi come una vouyer mi metto a spiare i fortunati abitanti di quelle stanze, intenti a leggere un libro davanti alla luce del camino.
Posso solo immaginare la pace che deve regnare qui, in questo posto remoto una volta andato via l’ultimo turista rumoroso.
Ecco, credo davvero che a rendere ancora più speciale questo luogo sia la sua posizione isolata da tutto e tutti.
Il Moraine ha un animo da eremita e per questo mi è stato da subito simpatico.
Stanchissimi, finite le escursioni per oggi, viaggiamo fino a Canmore dove abbiamo prenotato l’alloggio per le prossime quattro notti.
Abbiamo optato per Canmore perché le strutture hanno tendenzialmente prezzi più accessibili rispetto a Banff città, ma con gli stessi servizi.
Il Rocky Mountain Ski Lodge è un motel organizzatissimo, soprattutto per le famiglie.
Ha un’area giochi, zone barbecue e picnic, un praticissimo servizio laundry e, soprattutto, camere che sono in realtà appartamentini semplici ma caratteristici, con angolo cottura attrezzato, bagno con vasca, caminetto e persino un piccolo giardino se, come noi, si ha la fortuna di capitare al piano di sotto.
Quando, una volta sistemati i bagagli, esco per dare un’occhiata alle magnifiche montagne che ci circondano, mi rendo conto che questo posto pullula di coniglietti tenerissimi che se ne vanno a spasso per la proprietà liberi e senza farsi avvicinare.
La signora che gestisce il lodge ci spiega che qualche anno fa un tizio ha pensato bene di abbandonare i suoi conigli là e questi non solo sono riusciti a sopravvivere a freddo, gelo, fame e macchine che passano a tutta velocità sull’autostrada, ma addirittura hanno proliferato, rendendomi questo posto caro già dal primo sguardo.
Il tizio che invece ha abbandonato i suoi animali, invece, ecco lui lo vedrei bene sotto un tir.
Il giorno seguente ce la prendiamo con calma e approfittando della mattinata poco soleggiata facciamo il bucato nella laundry room mentre Sami si sfoga sugli scivoli.
Per pranzo facciamo una passeggiata per le strade di Banff, una cittadina montanara più elegante di Jasper, piena di locali e negozi per l’hiking, dove ci fermiamo per una pizza e un club sandwich.
Per le escursioni di oggi, accantonata l’idea di percorrere il ripidissimo sentiero che conduce alla Tunnel Mountain, partiamo alla volta di tre laghi, il Johnson, il Two Jack e il grandissimo lago Minnewanka, poi ci dirigiamo al Johnston Canyon passando per una bellissima strada panoramica chiamata Bow River Parkway.
Il Johnston Canyon si è formato grazie all’incessante scorrere del Johnston Creek. Si tratta di una passeggiata facile, eppure molto suggestiva che costeggia il canyon dal fondo e non dall’alto come ci è sempre capitato finora.
La prima porzione del sentiero parte da un parcheggio e, oltrepassato il Johnston Lodge e Bungalows, conduce alle Lower Falls.
Per vederle ancora più da vicino si può entrare in una caverna che ha una capienza massima di tre persone.
A questo sentiero se ne aggiunge un altro di circa 2 km per salire fino alle Upper Falls, suggestive nella loro pace.
Il terzo giorno a Banff costeggiamo il Bow River lungo un sentiero chiamato March Loop che parte dal centro di esibizione chiamato Cave and Basin.
Quello che non sappiamo è che questo tratturo è anche frequentato da cavalli (ne incontriamo parecchi, c’è un horse back riding nelle vicinanze che permette anche tour a bordo di diligenze in stile far west), quindi non è particolarmente attraente fare lo slalom tra gli escrementi giganteschi e la puzza di pipì degli animali, nonostante il bell’affaccio sul fiume.
Una volta usciti dal sentiero facciamo un picnic veloce, quindi partiamo per le Sunshine Meadows, di certo uno dei trekking più belli da fare al Banff.
Si tratta di un giardino naturale a circa 2300 metri di altitudine e passa tra le regioni di Alberta e British Columbia lungo quella immaginaria, ma cruciale linea di confine definita Continental Divide.
L’unico modo per raggiungere le Sunshine Meadows è prendere la Gondola (ovvero una cabinovia) che parte a valle dal Sunshine Village Ski o tramite un bus che però ha bisogno di biglietti prenotati in anticipo sul sito banffsusnshinemeadows.com.
Una volta in cima, una ranger ci dà una mappa con tutta la rete di sentieri percorribili e i vari quozienti di difficoltà, insieme a una miriade di consigli che poi sono quelli che si leggono in tutti i parchi nazionali, del tipo “non approcciate gli animali selvatici”, “non uscite dal sentiero”, “non sporcate”.
Ci dice che un grizzly è stato visto stamattina nei pressi di un lago, quindi di fare attenzione.
Prendiamo il sentiero principale che porta al Rock Isle Lake. Volendo si può proseguire fino al Grizzly Lake per un totale di 6 km e un’elevazione di soli 170 metri.
I laghi, specialmente il primo, sono superlativi.
Quando mi trovo davanti questo specchio d’acqua blu con quasi al centro un isolotto e quattro cervi che se ne stanno tranquilli a rifocillarsi, ho faticato a rendermi conto che fosse tutto vero e non il frutto di un sogno o di una fiaba.
Andando verso il Grizzly Lake incontriamo una ranger che ci suggerisce di fare in fretta perché l’ultima corsa per scendere a valle sarà per le 18.
Ci facciamo il cammino a ritroso quasi di corsa, ma per fortuna verso le 17:30 arriviamo a destinazione.
Giù a valle mi piacerebbe prendere qualcosa di caldo, ma sfortunatamente il bar ha già chiuso.
L’ultimo giorno ci dedichiamo all’esplorazione di Yoho, in British Columbia, altro parco nazionale attaccato a quello di Banff, spesso snobbato dai turisti, ma pieno di bellezze da scoprire.
Intanto si passa per la verdissima Yoho Valley, e già questo basterebbe come biglietto di presentazione.
Poi ci fermiamo al Natural Bridge, ovvero un ponte di roccia che si è formato naturalmente grazie allo scavare del fiume Kicking Horse.
Più avanti c’è l’Emerald Lake.
Che dire di questo lago alpino talmente verde da sembrare di remare su una lastra di vetro?!
Se ci si pensa è persino inquietante, il non riuscire a rendersi conto di quanto sia davvero profondo questo lago visto che sotto non si vede che… bianco.
Prendere la canoa qui è stata tra le cose più belle di questo viaggio.
Dal largo è possibile ammirare meglio poi il lodge che si nasconde tra le fronde degli alberi oltre il breve ponticello di legno che lo collega alla terraferma. Soggiornare qui, specialmente d’inverno sotto queste montagne cariche di neve e il lago ghiacciato deve essere meraviglioso.
Facciamo un picnic nel bosco, quindi ripartiamo per andare a vedere le Takakkaw Falls, alte quasi 400 metri, sono le seconde più alte del Canada. Sono possenti e già dalle strada per arrivare si sente il boato dell’acqua che scorre impetuosa.
Sabato lasciamo Banff sotto una pioggia torrenziale.
E’ stato l’unico giorno piovoso che abbiamo trovato e pensiamo di essere stati molto fortunati a riuscire a vedere tutto quello che ci eravamo prefissati senza intoppi.
Il viaggio di oggi sarà lunghissimo perché attraverseremo la dogana ed entreremo in territorio americano, nello stato del Montana.
Ci aspettano 6 ore in macchina, visto che il nostro prossimo alloggio è una casa affittata su Airbnb in una cittadina chiamata Columbia Falls, a pochi km dall’ingresso ovest del Glacier National Park.
Passiamo per un altro parco canadese, il Kootenay, dove non riusciamo a vedere granché per via del temporale.
Siamo ufficialmente in British Columbia, dove facciamo tutta una tirata fino al margine del parco, fermandoci solo a Hot Springs, cittadina famosa per le sue acque termali, dove mangiamo un boccone e fotografiamo delle splendide bighorn sheep, dalle corna particolari, quindi proseguiamo per panorami rurali, popolati da laghi immensi, fattorie e moltissimi cavalli al pascolo.
Attraversiamo la frontiera all’altezza dell’anonima cittadina di Roosville, dove un agente ci fa mille domande, compreso se stiamo portando cibo o bevande con noi, quindi attraversiamo sobborghi dall’aspetto pigro e povero, con compound dove stanno stipate famiglie intere (i numerosi passeggini sono parcheggiati fuori) e cartelloni che ricordano di non smettere di credere in Gesù Cristo, our lord and savior.
Questa strada è letteralmente disseminata di crocette bianche di metallo a testimonianza delle numerose highway fatalities che all’inizio pensiamo possano essere state causate dai molti animali selvatici che capitano sciaguratamente, magari di notte, in carreggiata, ma quando poi notiamo il servizio autostrade che invita a non bere e ad allacciare le cinture di sicurezza, ci rendiamo conto che potrebbero dipendere da altro.
Il ceto sociale si alza a poco a poco che ci avviciniamo al Glacier.
La cittadina di Whitefish, ad esempio, ha un aspetto più elegante, con scuole private, campi da golf e case di bell’aspetto.
Anche l’alloggio che abbiamo affittato per quattro notti nella cittadina di Columbia Falls è carina, tutta su un piano, spaziosissima e con un grande giardino all’americana senza recinzioni o lampioni.
C’è il bosco intorno a noi e aprire le tende la sera mette un po’ di inquietudine per via del buio pesto, ma anche per via di certi vicini.
La proverbiale giovialità degli americani, sempre pronti a scambiare un saluto, un sorriso, due chiacchiere, in questo quartiere non l’abbiamo ritrovata anzi, i nostri vicini sembravano volere evitare apposta i nostri sguardi rifugiandosi in casa o facendo altro.
Uno in particolare però è stato meglio che ci abbia evitati perché ci ha ricordato troppo il protagonista di un film horror.
La sua casa era una baracca sbilenca e vecchia, con lanterne cinesi e fenicotteri rosa come decorazione nel giardino incolto.
Da quella casa per giorni non vediamo che uscire gatti e cani. Il proprietario, se c’è, è un’ombra silenziosa che alla fine si palesa solo una volta in quattro giorni, con i suoi baffi da Hitler e il suo aspetto da veterano scampato al Vietnam. Quando esce per dieci minuti tutto quello che fa è camminare avanti e indietro percorrendo lo stesso tragitto dalla porta d’ingresso all’inizio del vialetto. Da brividi.
Il primo giorno al Glacier ce la prendiamo con calma perché siamo ancora molto stanchi per la traversata di ieri.
Quando arriviamo all’ingresso più vicino, paghiamo il pass settimanale (purtroppo non ne esistono di più brevi) e con le mappe dettagliatissime che la gentile ranger ci consegna decidiamo di esplorarlo seguendo la Going-to-the-Sun-Road.
E’ una delle attrazioni più famose da fare all’interno del parco, anzi credo che la maggior parte dei visitatori scioccamente si fermi solo a questa.
La Going-to-the-Sun-Road è una strada meravigliosa che attraversa completamente il parco da ovest a est ed è lunga 50 km.
Costruita nel 1937, permette di avere una idea generale della bellezza del Glacier e delle perle che contiene.
La cosa più sconcertante di questa strada è il panorama che cambia ad ogni tornante.
Dalla valle, dove si trova il suggestivo Lake McDonald, si costeggia il creek e attraversando una galleria scavata nella roccia (dove abbiamo la fortuna di vederci attraversare un orso nero) si sale vertiginosamente in montagna, con canyon verdi che sembrano infiniti ai propri piedi e cime altissime a rivelare nevai e cascate.
Arrivati al Logan Pass fa freddo perché si superano i 2000 metri, mentre altrove le temperature possono essere roventi. All’altezza del Lake St.Mary il panorama cambia di nuovo, sembra quasi desertico a giudicare dagli alberi brulli che troviamo, mentre di sotto risaltano il blu e il verde increspato del lago, reso celebre da Stanley Kubrik che lo scelse, insieme al suo riconoscibilissimo isolotto al largo, la Wild Goose Island, per la sigla di testa del suo capolavoro Shining.
Giunti all’ingresso orientale si entra in territorio indiano, quello della tribù dei Piedi Neri, un’affascinate prateria color del grano dove le strade si perdono all’orizzonte e dove zampettano allegri alcuni cervi (sul serio, per poco non ci finiscono sotto la macchina).
Essendo la Going-to-the Sun-Road l’unica strada percorribile troviamo una lenta processione di macchine per attraversarla, cosa resa ancora più difficile dall’orario e dal fatto che sia domenica.
Ci rendiamo subito conto che è difficile trovare un posticino per fermare la macchina e scattare una foto.
I parcheggi, quando presenti, sono pochi, e le piazzole panoramiche molte strette. Del resto tutto questo fa parte della filosofia del Glacier, dove circa il 95% del territorio è ancora intatto.
I ranger addirittura consigliano di avere un piano B in alternativa al Glacier, proprio per il suo essere piccolo e prezioso. Ma noi un piano B non lo abbiamo quindi, da domani, dovremo cercare di svegliarci presto.
Il giorno seguente partiamo all’esplorazione del Glacier percorrendo la Going-to-the-Sun-Road tutta di un fiato, ma arrivati all’ingresso est stavolta proseguiamo il nostro viaggio voltando a sinistra, verso il Many Glacier.
Noi ancora non lo sappiamo, ma la soddisfazione che ci darà questa giornata resterà nella storia.
Intanto trovo già affascinante dove ci troviamo. Più che città sembrano piccoli avamposti, con qualche motel e bar, molti dei quali chiusi per cessata attività, e un’unica pompa di benzina che troviamo a fatica.
Il Many Glacier è una porzione stupenda del Parco di Glacier, ma molti turisti non ci arrivano neanche perché in effetti in macchina è un bel viaggio di circa un paio di ore.
Parcheggiamo all’imbocco del sentiero che vogliamo percorrere, lo Swiftcurrent, e ci inoltriamo nel bosco costeggiando prima un lago, dirimpetto al lodge più famoso della zona, poi all’intersezione con un altro sentiero, proseguiamo a destra salendo verso il Grinnel Trail, che costeggia il lago Josephine.
Incontriamo alcuni ragazzi con le espressioni eccitate e una escursionista con i capelli rasta ci dice di stare attenti perché più avanti ci sono un orso e un alce, quest’ultimo se l’è appena data a gambe, ma l’orso potrebbe ancora essere nei paraggi.
E’ tutta la vacanza che desideriamo vedere un orso, ne abbiamo incrociato uno ieri mentre ci attraversava la strada, ma è stata una cosa talmente repentina da non essere riuscita a prendere neanche la macchina fotografica.
Improvvisamente però non ne sono più molto convinta perché di certo, quando ho espresso questo desiderio, non intendevo vederlo da terra, ma magari dalla macchina, a una buona distanza di sicurezza.
Qui gli spazi sono stretti, e con un po’ d’ansia proseguiamo fino a che non incrociamo un altro gruppo di ragazzi che provenendo dalla parte opposta rispetto a noi lo vedono chiaramente.
Una macchia nera tra i cespugli, proprio sulla riva del lago.
Sembro l’unica demente che non riesce a vederlo, tutti bisbigliano concitati “Amazing!” mentre io ancora stringo gli occhi per capirci qualcosa.
Poi, eccolo, sta agitando i cespugli in cerca di bacche da mangiare, e per fortuna ne trova in quantità perché altrimenti mica lo so come sarebbe andata a finire.
La distanza tra noi e lui è di circa 10-15 metri, molto, ma molto meno rispetto a quello che consigliano i ranger, e se all’inizio sono stupita, al punto da restarmene imbambolata a guardarlo, come sempre mi capita quando vedo animali nel loro habitat, improvvisamente mi rendo conto che, cavolo, quello è un orso, e si sta mettendo in posizione bipede per guardarci meglio e annusarci! E se si stesse preparando all’attacco? Io sto con un bambino di 4 anni!
Piano piano gli sfilo davanti tenendo con un mano ben saldo Sami, che poco prima dell’incontro è anche scivolato su un sentiero sbucciandosi leggermente un gomito, e ora sta tutto preoccupato su questa cosa, non collaborando granché, nell’altra lo spray antiorso che abbiamo trovato in un armadio a casa.
Vale si mette con lo zoom a fargli il book fotografico, e non vorrei lasciarlo indietro, ma il mio pensiero fisso è il bambino quindi, senza correre, torniamo da dove siamo venuti.
Sono preoccupatissima, Vale non accenna a tornare, e io non posso chiamarlo, o urlare, né tornare lì, anche perché chiedendo a chi scende mi rendo conto che l’orso si è messo a camminare sul nostro stesso sentiero.
Immagino la scena se me lo trovassi davanti…Ehm, scusi lei da che parte va?
Vale per fortuna si è stufato di fare il fotografo del National Geographic e torna indietro, col sorriso soddisfatto di un giocatore che ha fatto jackpot.
Torniamo da dove siamo venuti poi all’incrocio riprendiamo il primo trail terminando il loop, dove gli scenari di pace che troviamo in qualche modo riescono a tranquillizzarmi.
L’avventura di oggi vale da sola il viaggio, ma uscendo troveremo anche una coppia di grizzly a mangiare tra i cespugli. Oggi scorpacciata evidentemente, loro di bacche, noi di animali.
Tornando in città, dopo un bagno gelato nel Lake McDonald, ci fermiamo a comprare una specialità del Montana: un paio di fette di torta a base di huckleberry, una bacca (è venuta voglia anche a noi) che cresce d’estate in questi boschi e che nell’aspetto e nel sapore ricorda i mirtilli, anche se non sono la stessa pianta.
È pieno di chioschi che vendono pie, gelati, frullati al gusto di huckleberry lungo l’autostrada, e anche una serie di robivecchi che vendono cose usate, molto vintage, come le targhe automobilistiche delle quali facciamo collezione.
Domani cercheremo di passare all’orario d’apertura per vedere cos’hanno.
Il martedì partiamo con calma e ci fermiamo da un robivecchi all’altezza di Hungry Dam Horse.
Il nostro negozio di riferimento era chiuso per chissà quale motivo ed è stato un peccato perché, anche se fuori aveva un aspetto poco rassicurante, dentro sbirciando dalle finestre, lasciava presagire tutt’altra situazione e mi era cresciuta un po’ di curiosità ad entrare in un posto del genere, potenzialmente pieno di tesori.
Quest’altro negozio si chiama The Grandpa’s Attic.
Ha un piccolo patio sul davanti mentre sopra devono esserci le stanze dell’anziana coppia che lo gestisce. Il proprietario e sua moglie sono fuori a parlare con due clienti che se ne stanno andando a mani vuote. Vedendoci la signora saluta e se ne va entrando in una porticina che deve essere la cucina. Lui ci dà un caloroso benvenuto (ecco la cordialità americana a cui accennavo prima) invitandoci a entrare in casa sua.
È un uomo alto, ha il Parkinson e un improbabile cappello da cowboy in testa, un cravattino sottile al collo e una camicia di jeans. Ci porta davanti a un secchio di vernice senza coperchio dove ha conservato tutte le targhe del Montana che vogliamo, sia blu con la scritta Treasure State, sia bianca con la dicitura da me preferita Big Sky Country. Come sospettavo ci sono anche qui pezzi rari per collezionisti, come delle action figure sul tema di Star Wars ancora nella loro preziosa confezione, vecchie targhe di rame provenienti da auto famose, gioielli di argento che brillano sotto una teca di vetro. Paghiamo una sciocchezza prendendo due targhe e tre Hot Wheels degli anni ’90 per Sami, quindi ce ne andiamo, notando solo ora e con una certa malinconia il cartello For Sale che è esposto fuori.
Oggi visiteremo una zona ancora più remota del parco di Glacier, l’ingresso al Two Medicine Lake, in pieno territorio indiano. Sono in tutto tre sentieri principali. Quello che vorremmo percorrere noi parte dalla sponda nord del lago Oldman, nei pressi di un campeggio tranquillo dove pascolano indisturbate le pecore di montagna.
Il sentiero non è difficile, ma arrivare al Two Medicine Lake è molto dura per via della lunghezza del tragitto e la stanchezza che abbiamo evidentemente accumulato in questi giorni.
Inoltre il sentiero man mano che si prosegue si fa sempre più monotono visto che dal lago sale sempre di più andando ad allontanarsene del tutto e a parte boschi e felci c’è davvero poco altro. Dopo 4 km abbondanti torniamo indietro, mangiamo qualcosa, quindi andiamo a casa a preparare i bagagli.
Lasciamo il Montana il 4 settembre.
Chiudiamo per bene la casa di Jeanie quindi partiamo per un lungo viaggio in macchina che in 6 ore ci riporta a Calgary, dove il giorno dopo abbiamo l’aereo per Roma.
Passiamo per spazi che sembrano sconfinati, così come il cielo, enorme e puntinato solo di qualche nuvola leggera che corre veloce.
Ci sono tre bandiere che sventolano orgogliose a ricordare che il Montana sia la Black Feet Nation, e non so se la cosa mi fa più ridere o piangere. Hanno messo qui due statuine, due guerrieri a cavallo con tanto di archi, frecce e armamentario di piume e pelli. Dovrebbero essere celebrative, referenziali, invece questi due figurini fatti di pezzi di metallo come borchie delle macchine e utensili per il giardinaggio, mi sembrano uno schiaffo in faccia, l’ennesima beffa.
A testimonianza della presenza degli indigeni in Montana solo mandrie e mandrie di tatanka, i bufali. Le comunità indigene in realtà vivono appena fuori la frontiera, una volta entrati in British Columbia, compound di famiglie poverissime con anziani invalidi e bambini scalzi. I cartelloni che troviamo in autostrada indicano emergenze dal punto di vista sanitario in termini di dipendenze di droghe e alcool. Si invita a prendere una sostanza simile al metadone per non rovinarsi la vita, né quella dei propri cari, e anche questo mi sa di ipocrisia perché a umiliare la dignità di questa gente, destinandola ad una vita di depressione e disoccupazione, è stato proprio il governo. Anche il loro rapporto con il cibo ormai è conflittuale. Avevamo letto da qualche parte che malattie come diabete, ipercolesterolemia, predisposizione all’obesità e all’infarto sono ormai di natura famigliare tra i nativi americani e vederli ora in fila a un fast food in mezzo al nulla a pranzare con l’ennesimo cheese burger e patatine non può che peggiorare la situazione.
A Calgary lasciamo la macchina in aeroporto e con un taxi raggiungiamo il nostro albergo che non è troppo distante da qui, il Clique.
Quanto mi è dispiaciuto stare qui per una sola notte! Tra camera enorme, bagno comodo ed eccellente servizio ristorante ci avrei messo radici!
Torniamo a Roma con un bel ricordo nel cuore.
Come ho già detto all’inizio, in qualche modo questo viaggio è capitato nel momento in cui doveva capitare, forse quando ci serviva di più.
Ma da oggi in poi, per noi, tornare a casa e non trovare il nostro consueto e privilegiato comitato di accoglienza felina, sarà sempre un po’ più dura…