Pechino 2019

Doveva essere un viaggio di lavoro che poi è saltato quando avevamo già fatto i biglietti aerei, inoltrato la domanda per il visto (e le ferie) e pagato l’albergo. Doveva essere il viaggio per festeggiare i miei 40 anni, ma niente, rischiava di saltare comunque perché il giorno prima della partenza un tassista ha voluto l’idea di investire Valerio. Niente di grave, per fortuna siamo ancora qui a raccontarlo, ma l’ansia nella sala d’attesa del pronto soccorso per capire da cosa dipendessero quegli svenimenti ben si sposava con la nostra delusione in caso di sentenza negativa riguardo la partenza da parte dei medici.
Questo viaggio di una settimana a Pechino è nato così, sofferto, sospirato e fortissimamente voluto, fin da subito.
Sarà che noi le cose ce le dobbiamo sempre guadagnare…
Partiamo comunque, nonostante la frattura al naso, nonostante il ginocchio contuso, nonostante la stampella e con il report del pronto soccorso alla mano, che, tra le altre cose, ci dà l’idoneità per un volo intercontinentale, in fase di check in chiediamo i posti con più spazio possibile per le gambe.
Ci addormentiamo come due bambini a bordo di questo aereo che di nuovo e avveniristico ha ben poco (chissà per quale motivo mi aspettavo una cosa del genere dall’Air China…), ma in compenso ha un servizio vecchio stile, con una hostess italiana in particolare che si prende letteralmente cura di noi.
L’aeroporto di Pechino è una città nella città che sembra voglia espandersi ancora di più. Treni monorotaia rialzati collegano i vari terminal lussuosi tra loro nel via vai affacendato dei viaggiatori che ogni tanto sembrano accorgersi di noi e ci guardano con curiosità abbozzando un sorriso.
Eravamo un po’ prevenuti sul popolo cinese, lo ammetto. Di certo non parliamo di campioni di galateo: mai visto sputare, espettorare, digerire, masticare rumorosamente in pubblico come in questi sette giorni, ma qualcuno di loro con noi è stato carino dandoci il benvenuto in una lingua che proprio non gli appartiene (“welcome to China”) o ammiccando compiaciuti quando noi stranieri accettavamo di usare le bacchette al posto della forchetta.
Capiamo da subito due cose. Nessuno parla inglese, appunto, neanche i tassisti (persino in albergo, pochissimi tra receptionist e concierge), tant’è che avevamo preso l’abitudine di mostrare l’indirizzo della nostra destinazione in cinese, e, due, la carta di credito non la accettano da nessuna parte.
“Cash” o, meglio ancora, il gesto universale dell’indice e del pollice che si sfregano tra loro, sarà il mantra in questi giorni, e prenderemo l’abitudine di prelevare circa 1000 yuan ogni due-tre giorni, tanto per stare tranquilli (1€=circa 8 Yuan).
L’albergo, nostro malgrado, era stato scelto da quelli del convegno, un comodo business hotel con spazi enormi e nel cuore della zona dell’Olympic Park, dove si sono svolti i Giochi Olimpici Estivi nel 2008.
Quando, la prima sera, usciamo dall’albergo e ci troviamo di fronte la gigantesca scultura delle fiaccole olimpiche illuminate di giallo oro, restiamo senza parole per lo stupore, così come al cospetto del Bird’s Nest e dell’Ice Cube, rispettivamente uno stadio di calcio e una piscina olimpionica, a nemmeno 1 km dal nostro alloggio. Quasi trovarsi degli alieni nel cuore della metropoli.

Fermiamo un taxi per andare a mangiare l’anatra laccata alla pechinese in zona Wangfujing.
Avevamo letto che questa strada dedicata allo shopping è anche sede di uno dei mercati di street food più antichi della città, ma dopo molti giri scopriamo che, ahimè, per tutto il mese di ottobre sarà chiusa per lavori di ristrutturazione.


Ad ogni modo, l’anatra laccata è una vera leccornia, un piatto da festa che riunisce tutta la famiglia intorno alla tavola rotonda (di quelli con la superficie girevole al centro) insieme a un quantitativo inverosimile di contorni.
Nel ristorante dove l’abbiamo mangiata, lo chef arriva al tavolo con il carrello sul quale è adagiato il povero pennuto e, quasi rendendogli grazie per il sacrificio, utilizza le parti più prelibate, pelle e carne del petto, per creare un fiore (che poi è il simbolo della Cina) mentre la pelle, croccante e calda da sciogliersi in bocca, sarà da inzuppare nello zucchero.
Dell’animale non si butta niente. Vengono servite anche ossa, zampe e testa nel caso qualche commensale si voglia divertire a rosicchiare (il resto della carcassa sarà per il brodo), mentre tutto viene porzionato in piccoli pezzi che verranno messi a scaldare su un fornelletto in modo da tenere la carne sempre calda.
La cameriera mi fa vedere come procedere.
Prende una sottilissima sfoglia di pane in un piatto, la riempie con dello scalogno in strisce mentre con la bacchetta sceglie un pezzo di carne che andrà a immergere in una salsa che ha il colore della soia, ma è molto più forte e densa. La carne bagnata fungerà da pennello per imprimere il pane di salsa, quindi si arrotola il tutto e si mangia. Io non avevo mai provato la carne d’anatra. L’ho trovata grassa, ma buonissima.

Il mattino seguente partiamo alla scoperta dell’immenso Villaggio Olimpico che ospita non solo impianti sportivi dalle architetture moderne e accattivanti, ma che è un vero e proprio parco per e della gente, che viene qui a qualsiasi ora del giorno e della notte per passare il proprio tempo libero.
È domenica oggi e complice la magnifica giornata di sole, intere famiglie si sono riversate sui prati dell’Olympic Forest Park per passare qualche ora facendo un picnic e giocando all’aperto. Molti sono in costume tradizionale, tra musica a palla e gare sportive per grandi e piccoli. Una bella atmosfera di festa.20191027_121059

Prendiamo la metro e ce andiamo in Piazza Tienan’men.
La metro di Pechino è pulita, sicura, economica ed organizzatissima. Non si possono portare armi o sostanze tossiche/velenose/infiammabili così verrete sottoposti a un security check ogni volta che vi appresterete a cominciare un viaggio.
Le fermate sono tutte scritte in doppio alfabeto, quindi non c’è possibilità di perdersi, solo bisogna impratichirsi con i loro nomi a volte lunghissimi e impronunciabili.
Non siamo riusciti a fare nessun abbonamento, più che altro perché nessuno capiva cosa stavamo chiedendo, così abbiamo sempre viaggiato con il single journey ticket. Per acquistarlo ci sono le macchinette. Vi basterà inserire la vostra fermata di arrivo e quella calcolerà immediatamente il percorso. Noi abbiamo fatto km in metro e non siamo mai arrivati a pagare più di 10 yuan per corsa. Una cosa da imparare presto è scegliere la giusta uscita della metro altrimenti sono km su km in più. Non sottovalutate Pechino. Se sulla mappa il pezzo da fare a piedi vi sembra irrisorio, magari state parlando di distanze da affrontare anche di 5 km. Del resto è una città con circa 22 milioni di abitanti (sette volte Roma…).

Il security check lo fanno anche fuori la metro, per entrare nelle attrazioni e nei posti cardine come, appunto, Piazza Tienan’men. È fondamentale portare il passaporto con voi perché vorranno controllare il vostro permesso visa (che non serve se starete solo 6 giorni). Per i cinesi il trattamento è il medesimo. Riconoscimento tramite documento e un monitor speciale che ne permetta anche quello facciale.
Piazza Tienan’men è gigantesca e rappresenta davvero un pezzo di storia cinese, dalle recenti parate in pompa magna per festeggiare i 70 anni dalla Repubblica Cinese di Mao Tze Dong alle drammatiche manifestazioni soffocate nella violenza di studenti, pacifisti, monaci, intellettuali, insomma chiunque abbia provato, negli anni, a opporsi al regime cinese.
Al centro troneggia una grande coppa di fiori e frutti a simboleggiare abbondanza e intorno, ai punti cardinali della piazza, trovano posto il complesso della Città Proibita, il Museo Nazionale, il Monumento a Mao e, al centro, simmetrico alla cornucopia cinese, il Monumento ai Caduti. Ai lati della piazza hanno costruito delle strutture a mó di nastri rossi sui quali sono stati montati dei video wall giganti a ricordare il 70esimo anniversario della Repubblica. Per molti venire qui deve rappresentare una sorta di pellegrinaggio e sono tanti quelli che si riversano nei negozi di souvenir qui intorno per uscire o con una bandierina cinese o con una immaginetta di Mao da appendere allo specchietto retrovisore della macchina.


Proseguiamo a piedi seguendo i sentieri obbligati da centinaia e centinaia di transenne (i cinesi amano transennare, la loro è proprio una passione!) che non permettono nessun tipo di scorciatoia fino ad arrivare a Qianmen, una strada a ridosso di uno degli Hutong più antichi di Pechino, quello di Xi’Chao, dove si trova di tutto, dal mercato in senso stretto al cibo tradizionale.


Entriamo in una specie di locanda dove al centro trovano posto qualche tavolo con panche e sgabelli e intorno almeno 4 o 5 bancarelle che propongono cibo locale, dall’immancabile anatra laccata, ai noodles, dai bao, pagnotelle al vapore farcite o di carne o di gamberi e verdura, alla trippa di fegato.
Mangiamo qui, buttandoci un po’, e il risultato sarà tutto squisito tranne le zuppe. Quelle erano davvero Immangiabili per i nostri gusti. Uscendo ci perdiamo per le strade dell’Hutong e abbiamo la fortuna di vedere una rappresentazione teatrale tipica con tanto di costumi colorati, balli e dragoni rossi, cominciare proprio in quell’istante. Se Pechino voleva darci il benvenuto ha scelto il modo migliore per farlo.

Lunedì la Città Proibita è chiusa quindi con la metro raggiungiamo il Tempio del Cielo. Avevamo letto che si tratta di una delle cose più belle da vedere a Pechino e secondo me è proprio così!
Il Tempio del Cielo è uno dei templi in legno più antichi della Cina. Costruito nel nel 1420 ospitava l’imperatore e la sua corte per periodi di astinenza, preghiera e riti sacrificali per garantire buoni raccolti e alcune volte pioggie.
Il complesso sacro è uno dei siti entrati a far parte del Patrimonio UNESCO e non poteva essere altrimenti. Le strutture dei templi, perfettamente circolari e a loro volta circondate da terrazze concentriche di marmo lavorato che permettono una acustica perfetta; quel senso del circolare che ritorna e che ricorda l’infinito, a sottolineare la credenza secondo la quale il paradiso sarebbe a pianta concentrica mentre la Terra a pianta quadrata; quei colori vibranti che passano dal verde al blu, dall’oro al rosso; il parco nel quale tutto questo è immerso, giardini di pace dove ogni tanto si sente echeggiare musica rilassante, non so, ho trovato tutto meravigliosamente e spiccatamente orientale. Qui ho trovato la Cina che immaginavo, quella più spirituale e ascetica. Una cosa che non sapevo è che nella prima porzione del parco, in particolare nei pressi di quello che viene definito il Lungo Corridoio, si incontrano i vecchietti del quartiere (ma forse vengono anche da altre parti) per scambiare due chiacchiere, giocare a carte o a qualche gioco da tavolo che all’apparenza sembrerebbe una dama (hanno pedoni più grandi e spessi e sopra hanno dei simboli di diverso colore), ma che lasciando uscire il loro lato più combattivo mi fa venire in mente possa essere un gioco da bisca clandestina. Forse si tratta del Majhong, ma non ne sono sicura…


Tornando ci fermiamo a Wangfujing per la cena, ma per arrivarci usciamo a una stazione metro chiamata Dondang, un bellissimo quartiere moderno con grandi grattacieli ma attaccato a uno Hutong, quindi garantendo un bel mix di vecchio e nuovo. Abbiamo voglia di cibo occidentale stasera così saliamo all’ultimo piano di un mall lussuosissimo per andare a mangiare al Cheese Cake Factory. Anche qui pochissimi parlano inglese, ma sono talmente gentili e premurosi che ti fanno dimenticare tutto il resto. Porzioni enormi e piatti da urlo (favolosa la mia cheese cake con caramello salato).

Martedì è completamente dedicato alla Città Proibita o meglio, il Palazzo Imperiale. L’epiteto “Città Proibita” è stato dato perché nessuno, a parte gli imperatori, la propria corte e la propria servitù, poteva accedere a questo complesso meravigliosamente pomposo e complicato. È costruito a cannocchiale, partendo dalle altissime mura esterne fino ad arrivare pian piano ai piani più alti in un crescendo di importanza a livello sociale, di rango ma anche di estasi interiore. Devo dirlo, all’inizio non riuscivo granché a cogliere le differenze tra un padiglione e un altro, poi, superati i primi tre gironi, la visita si fa sempre più interessante. Ho amato molti aspetti della Città Proibita. I tetti di tegole gialle smaltate che da certe angolazioni lasciano intuire quanto fosse effettivamente grande il complesso e quante persone vi lavorassero, i colori dei templi, ricchi di significati simbolici quale purezza, longevità e prosperità, le modelle che scelgono queste scenografie uniche al mondo per servizi fotografici in costumi tradizionali, alcune sono bellissime tanto che non ho resistito e ho chiesto loro il permesso di venire immortalate anche da me, i giardini di rose e pini nani in mezzo a piccoli padiglioni in equilibrio su piscine ricche di carpe, da sempre sinonimo di amicizia e fratellanza. Stupende le sale del trono dell’imperatore, alcune di esse decorate con fini suppellettili di giada lavorata a mano, e il teatro o Palazzo dei Bei Suoni, una struttura a tre piani dove i reali ascoltavano concerti o assistevano a spettacoli teatrali, bellissimo il pannello dei 9 draghi, un’opera d’arte che vanta più di 600 anni, che infatti merita un piccolo biglietto a parte. Una visita alla Città Proibita è un’esperienza e dà davvero idea dell’importanza e del potere dell’impero cinese.
Qualche Consiglio:scarpe molto comode perché camminerete un sacco, comprate i biglietti salta fila, portate il documento d’identità, arrivate presto perché il complesso chiude alle 17 e le cose da vedere sono davvero infinite.


Usciamo obbligatoriamente dalla parte del Parco di Jingshan, sormontato da una collina con tre templi perfettamente simmetrici a far da cornice, da dove si deve godere di una vista mozzafiato, considerando che tra un po’ tramonterà anche il sole. Paghiamo una cifra irrisoria e ci inerpichiamo lungo il pendio della collina e no, non ci sbagliavamo affatto, la vista da quassù è davvero spettacolare, soprattutto sui tetti della Città Proibita al tramonto e sul Distretto Finanziario (uno dei tanti) a oriente.


Usciamo dal parco che è ormai buio e tra gatti enormi e lanterne accese appese agli alberi ci ritroviamo in strada a cercare una stazione metro per tornare in albergo. Come spesso succede felicemente in viaggio ci ritroviamo in un delizioso quartiere chiamato Shicacai costruito sulle rive di un fiume.

Mangiando del pane che abbiamo comprato a un forno, dove delle gentili ragazze, tra una risatina timida e l’altra, provavano a dirci che una era dura e dolce (la mia) mentre l’altra morbida, scura e salata, arriviamo a una piccola rimessa dalla quale si intravedono barche con romantiche lanterne rosse accese da prendere a nolo, mentre i locali qui intorno si apprestano a ricevere la clientela serale. Ci fermiamo qui intorno a mangiare l’hot pot, una specialità mongola molto in voga a Pechino. In pratica portano a tavola una pentola circolare di rame il cui bordo aperto è profondo abbastanza per contenere acqua, aromi e gli ingredienti che l’avventore sceglierà di bollire, se carne, pesce, tofu o verdura. La base della pentola è mantenuta sempre rovente grazie a un fornelletto, mentre dal camino sopra fuoriesce il vapore. Da ordinare insieme agli ingredienti preferiti anche delle salse con le quali condire il tutto. Noi, su consiglio di alcuni commensali occidentali seduti vicini, abbiamo scelto quella a base di burro di arachidi. Era tutto buonissimo e poi il locale mi piace un sacco perché ogni salottino (non sono semplici sedie) è ornato di cuscini strani e orsacchiotti di peluche mentre una brava cantante cinese si esibisce su un palco, solo voce e chitarra.


Quando usciamo il quartiere è più vivo che mai: locali con i buttadentro, bancarelle che vendono cibo non meglio identificato che però proviamo comunque tipo tofu fritto (lo avevamo scambiato per pesce) condito con brodo, aromi e peperoncino, insetti allo spiedo (giuro, scorpioni, larve, cavallette.. Tutto fritto e messo allo spiedo), più tutta una serie di fauna umana che sembra uscire fuori serpeggiando aiutata dal favore delle tenebre come certi mendicanti con malformazioni indicibili…

Mercoledì andiamo alla Grande Muraglia. Scegliere l’ingresso più facilmente raggiungibile da Pechino, dove ci fosse poca gente (in poche parole, scarsamente turistico) e che regalasse paesaggi indimenticabili è stato oggetto di un lungo periodo di studio. Alla fine optiamo per Huanghuacheng, a circa 75 km da Pechino, l’unico punto della Grande Muraglia che affaccia sul lago, anzi, una parte di Muraglia qui è proprio sommersa e già solo questa cosa me ne fa innamorare. Se a tutto questo aggiungiamo che questa porzione della Muraglia è difficilmente servita dai mezzi pubblici (al contrario degli ingressi di Mutianyu e Badaling), direi che la scelta vien da sé…
Ci facciamo chiamare un taxi dalla gentile concierge dell’albergo che si mette a contrattare il prezzo per noi in una lingua tutta loro fatta anche di sorrisi sornioni e suoni acuti simili a piccole urla (ma non stavano litigando).
Alla fine Mr. Ian, un vecchietto che avrà 190 anni e la vista di una talpa (urta la portiera aperta di una macchina appena usciti dall’albergo) accetta di accompagnarci e di aspettarci per tre-quattro ore durante tutta la visita. Unica richiesta, vuole 350 yuan subito, gli altri al ritorno. Ci sembra tutto piuttosto ragionevole quindi partiamo per un lungo viaggio, circa due ore, attraverso i distretti rurali di Pechino, quelli più poveri dove i contadini lavorano i campi coltivati a cavoli e broccoli e dove si improvvisano mercatini ai bordi della strada, qualche zucca e bastone di legno intagliato a mano.
Appena fuori la biglietteria per accedere alla Grande Muraglia sorge la piccola comunità di Huanghuacheng, così chiamata perché d’estate la valle si colora di giallo grazie a un fiore che cresce spontaneo da queste parti (credo il nome infatti significhi proprio “fiore giallo”).
Trovo bellissimo passare per questo viale sul quale affacciano locande, trattorie, bancarelle di merce mai vista, come certi frutti che abbiamo visto caramellati su uno spiedino per uno spuntino di strada tipico e più in generale è proprio interessante guardare la gente.


La visita nella porzione di Huanghuacheng è pensata per tutti, sia per chi vuole fare trekking sulla Muraglia o seguendo i sentieri di montagna intorno a essa o anche per chi non può accedervi ma vuole comunque godere di questa natura e di questo parco. Trovarsi a scalare la Muraglia però è una emozione unica. Dico “scalare” non perché serva una attrezzatura particolare, almeno per questa parte di Muro, ma perché le scale, i gradini o più in generale le pendenze che vi troverete ad affrontare sono notevoli e ci hanno messo a dura prova, noi che siamo abbastanza allenati. Credo che l’autunno sia il momento migliore per visitare Pechino e, in particolare, la Grande Muraglia. Qui intorno i boschi sono pieni di castagni che in questa stagione si vestono delle più belle sfumature di giallo e di rosso per il foliage. A piedi arriviamo alla parte sommersa, in rovina, della Muraglia, quindi Attraversiamo un ponte decorato con tante girandole colorate che ruotano vorticose seguendo la forza del vento e arriviamo a un isolotto in mezzo al lago, lo stesso che abbiamo visto dall’alto, tra i merli dei camminamenti di ronda, per pranzare con i sandwich che abbiamo comprato in albergo stamattina e una pannocchia alla griglia espressa acquistata al momento. Decidiamo di salire ancora di più usando il Metallic Slide, una cabinovia nuovissima che si inerpica sinuosa lungo i crinali per seguire dall’alto i profili arrotondati di queste montagne solcati da corridoi di Muro alternati a qualche torretta di guardia. Se ci si pensa è stata davvero una follia quest’opera magnifica che solo a nominarla fa ancora tremare gambe e polsi. Ha più di 600 anni (ma le porzioni costruite dalla dinastia Qing sono datate intorno all’VII secolo a. C.) è lunga più di 8000 km e attraversa ben 5 regioni diverse della Cina, ognuna con qualche caratteristica peculiare, panorama diverso, addirittura costruita con materiali diversi. Ma tenere i mongoli nemici dall’altra parte della barriera richiedeva enormi costi di gestione (e vite umane… Si stima circa un milione di operai persero la vita lavorando alla Grande Muraglia e si racconta che i corpi venissero murati con essa per limitare le spese). Con gli anni qualche segmento di Muro crollò divenendo l’inevitabile anello debole della catena. Non questa parte di Muro però che anzi, vista la vicinanza a Pechino e il controllo sull’acqua permetteva una pronta linea difensiva per il nord in caso di necessità. L’unico “problema” del visitare la Grande Muraglia è che viene una curiosa e inevitabile voglia di visitarne gli altri ingressi (non solo a Pechino…) per vederla da più angolazioni possibili…

La mattina seguente partiamo alla scoperta di due templi cardine per la religione e cultura cinesi. Lo Yonghe Temple o il Tempio dei Lama (intendendo i monaci buddisti, non gli animali come ignorantemente credevo) e quello di Confucio, proprio dirimpetto.
Il Tempio dei Lama è stata la dimora del Principe della dinastia Qing fino a che non divenne un complesso sacro dedicato al buddismo. A parte le straordinarie architetture, i colori e i simboli a me è piaciuto soprattutto guardare la gente qui, venuta per pregare probabilmente da ogni angolo della Cina, la loro accuratezza Nell ‘accendere gli incensi in un rito di gesti e inchini reverenti ben precisi e studiati. La struttura come abbiamo già avuto modo di vedere nei giorni scorsi è a cannocchiale quindi partendo dallo strato più esterno (sinonimo di impurezza oltre a essere spazi di passaggio o per gente di basso rango) ci si avvicina sempre più, varcando cancello per cancello, al Nirvana, all estasi contemplativo che nello Yonghe Temple si traduce nel guardare in faccia la Maytreya, una statua d’oro alta ben 26 metri (è entrata nel Guinness dei Primati), simbolo assoluto di pace e serenità interiori.


Il tempio di Confucio mi è piaciuto per la natura in cui è immerso. Un giardino di pini e tassi secolari accoglie e quasi nasconde i templi minori, quattro per parte, con stele di marmo racchiuse al loro interno sulle quali il grande pensatore e filosofo cinese scriveva le sue riflessioni, e dopo di lui i suoi discepoli, per poi accedere al tempio vero e proprio che però si può vedere solo da fuori. Un albero in particolare sulla sinistra della scala principale per accedere al tempio maggiore avrebbe la nomea di saper distinguere le persone buone da quelle cattive in quanto, all’epoca dell’impero Ming, fece volare il cappello del consigliere di corte il quale davvero nel corso della storia si scoprì essere corrotto e malvagio.


Uscendo ci perdiamo a piedi per le strade di un vecchio Hutong nei paraggi, facendo attenzione a non venire investiti da un motorino elettrico o una bicicletta, entrambi silenziosissimi, mentre sbircio nelle minuscole case di queste persone. Da fuori sembrano ambienti angusti, molto bui, dove ogni angolo viene usato per accatastare roba che chissà se verrà mai davvero usata. I cinesi mi hanno ricordato delle formiche, forse un po’ spaventati da quello che il futuro può riservare, senza nessuna certezza e quindi per questo sempre fin troppo previdenti. C’è molto disordine, non necessariamente sporcizia, ma è chiaro che la gente preferisca radunarsi fuori, in strada, che tra queste quattro mura. E così è facile trovare vecchi come gatti seduti al sole, massaie a pulire la verdura sulla porta di casa, gruppi di uomini intenti a giocare o semplicemente con il naso dentro al cellulare. Il rapporto dei cinesi con il cellulare meriterebbe un discorso a parte. Tutti lo consultano maniacalmente e sempre, anche quando dovrebbero fare attenzione a scendere o salire una scala in metropolitana, ad esempio, o a guidare. Lo consultano non solo per cose “banali” come potrebbe essere telefonare o mandare un messaggio a qualcuno, no. Lo usano anche per pagare usando una App chiamata Wechat che è collegata a una specie di PayPal chiamata Alibaba,ma non solo. Wechat mischia le attività di un Twitter e di un Whatsapp ed è chiaro che con una comodità del genere sei sempre connesso e allo stesso tempo, cosa più importante, senza bisogno di un soldo contante in tasca o con carte di credito con onerosi costi di gestione. Il cellulare per i cinesi sembra un normale proseguimento del proprio corpo, uno strumento di svago attraverso il quale evadere da una realtà magari monotona e noiosa. E allora ecco chi si sente un impavido cavaliere e si avventura in una rischiosa dungeon, chi guarda film o serie intere durante i lunghi percorsi sui mezzi pubblici, chi si gode balletti improbabili di finte infermiere con il camice troppo corto e seno e occhi troppo grandi per sembrare davvero donne orientali, gattini (che quelli ci stanno sempre bene). Sapete perché adoravo prendere la metro a Pechino? Per immergermi in tutto questo.


Per noi occidentali invece usare internet può essere rognoso in Cina perché dagli anni 90 esiste un Firewall che ha portato a oscurare vari motori di ricerca e siti quali Google, Facebook, Instagram in modo che i cinesi “imparassero da sé”, creando tutta una serie di opzioni identiche a quelle del mondo occidentale(se non addirittura migliori), ma made in China. E quindi non troveremo Amazon ma Alibaba, non esiste whats app ma wechat (che è più completa rispetto alla nostra app), Bing al posto di Google. Per accedere a tutto questo dovrete scaricare una vpn che vi permetta di sfruttare il wifi per ricerche anche su siti occidentali. Ma ve lo dico, la mia, express vpn, gratuita, per certi giorni non ha preso mai.
Sul confine ovest esterno all’hutong c’è una tavola calda che fa piatti veloci ed economici. Ci fermiamo per due specie di pagnotelle ripiene di carne, calde, buone ma a parer mio con troppo grasso, e due rinfrescanti bibite gassate a base di mandarino… Una delizia! Più avanti c’è anche una caffetteria locale ricavata all’interno di una biblioteca (credo si possano davvero prendere i libri in prestito) a sua volta ricavata tra due uffici. Non male, in poco spazio sono riusciti a unire utile e dilettevole.
Ci riposiamo un po’, poi riprendiamo la metro e partiamo per una zona remota nel nord est della città, andiamo al 798 Art District. Un tempo zona di fabbriche e quartiere popolari, oggi tutta questa parte di Pechino è stata riqualificata e adibita a spazi per esprimere l’arte, in tutte le sue declinazioni. Installazioni artistiche, gallerie d’arte, musei di arte moderna, street art, ma anche teatri per esibirsi in danza, musica, canto, cinema, moda. Proprio in questi giorni fervono i preparativi per la China Fashion Week che si terrà proprio in uno di questi distretti, tra vecchie acciaierie ormai in disuso e giganteschi forni che producevano mattoni. Preparatevi a vedere i tipi più strani e divertenti che la Cina ha da offrire magari mentre vi fermate a mangiare un sushi o in una qualche pizzeria italiana. Sì perché questo posto pullula di locali da tutti gli angoli del mondo quindi qualora foste stufi del solito riso con maiale beh, qui potrebbero esserci delle valide alternative. Al di fuori del 798 Art District grattacieli futuristici in mezzo a palazzine popolari, tanto traffico…insomma tanta roba❤️

Il venerdì partiamo per un’altra zona remota della città ma stavolta andiamo a nord ovest, nel complesso del Summer Palace. Paghiamo un biglietto cumulativo per poter vedere più aree possibili, ma vi diciamo da subito che anche questa visita sarà spossante per quanto chilometri macinerete e per quante cose bellissime vi troverete davanti. Prima tra tutte la splendida Sozhou Street. Vi sembrerà di essere sul set di qualche film sull’antica Cina immaginando l’imperatore travestito da popolano che sceglieva le locande e i negozietti sorti lungo le sponde del Black Lake, a sua volta solcato da barche basse e con un solo lungo remo per far presa sul fondo limaccioso. Le truppe anglo francesi lo rasero al suolo e venne ricostruito nei minimi dettagli solo intorno agli anni ’90. È la parte di cui mi sono innamorata maggiormente, fa molto l’Ultimo Imperatore.
Una volta varcata la prima porta vi troverete in un ambiente dalle pareti rosse e perfettamente simmetriche, come sempre, e tra torrette e templi stavolta troverete due stupa color bianco e oro. Salita la montagna, letteralmente, troverete il tempio dedicato a Budda, impreziosito da magnifiche maioliche verdi e gialle brillanti ciascuna contenente un alto rilievo di Buddha. Uscendo si entra a pagamento nell’area della Torre. Scendendo si arriva a quella che era la vera abitazione estiva dell’imperatore, ormai un museo dalle cui finestre si può solo sbirciare come fossero i mobili, le suppellettili, i tessili… Eleganza sobria senza lusso né sfarzo, cose bellissime.
Uscendo ancora ci si ritrova sulle sponde del Landung Lake dove oggi navigano pedalò e barche per turisti per far vedere la magnificenza del complesso anche dall’acqua. Il vero Palazzo d’estate si trova dall’altra parte, su una isola, ma vi perderete prima tra i vari templi e templietti, corridoi dove la gente bivacca per riposare, gruppi di scolaresche con le bandierine a oscurarvi la visuale.
Stanchi e confusi imbocchiamo la via d’uscita senza riuscire a vedere il resto, ma eravamo arrivati al limite della sopportazione. Riprendiamo la metro e torniamo in albergo a riposare. C’è un macdonalds non lontano da qui. Stasera ceniamo sul letto come nella nostra migliore tradizione di viaggio.


Il sabato è giorno di mercato in molte culture e la Cina, che ha il commercio nel sangue, non poteva mancare all’appello. Siamo stati in moltissimi mercati nel mondo ma quelli cinesi sono un’esperienza. In particolare il Mercato delle Pulci di Panjayuan, di tradizione millenaria, il sabato e la domenica accoglie i mercanti da tutte le parti della Cina che si radunano là dalle 4:30 del mattino fino alle 16:30 (gli altri giorni è comunque aperto dalle 8:30 fino alle 16:30,ma con meno merce, ovviamente). Per chi è appassionato di arte orientale, per chi se ne intende e soprattutto se siete bravi nell’arte della contrattazione credo che qui si possano fare davvero dei buoni affari. Io purtroppo non me ne intendo granché ma ho visto dei mobili artigianali splendidi e anche dei gioielli di giada meravigliosamente lavorati a mano. Il mercato è diviso in sezioni. Oggettistica di vario tipo, anche religiosa, tele, disegni e dipinti, gioielli o forse dovrei dire bigiotteria e poi i libri usati in mezzo a tantissimi cimeli di propaganda comunista.

Interessante è il commercio che gira intorno a delle strane e grosse noci il cui guscio è solcato da profonde venature. Credo vengano usate come talismani portafortuna ma ho visto persone che le fanno girare in una mano quasi come fosse un antistress.
Capannelli di gente accerchiano alcuni venditori che per dimostrare la validità del prodotto puliscono i gusci energicamente con una spazzolina speciale per poi aprire live quella specie di riccio in cui sono contenute.
La vera fortuna consiste nel trovare la noce gemella, quella che presenti la stessa forma chirale e con le stesse caratteristiche. Certi venditori hanno fatto il lavoro difficile e propongono coppie di noci predestinate già impacchettate i cui prezzi possono variare dai 100 yuan fino a raggiungere i 2000 yuan, a Seconda della grandezza del frutto. Hanno allestito in un a go del mercato addirittura una lotteria per provare ad accaparrarsi le coppi di mici più costose. Per partecipare basta versare 100 yuan e girare una ruota colorata che mi ha ricordato tanto Mike bongiorno. A Seconda di dove fermerà l’ago si saprà se il giocatore ha vinto e il valore della coppia di noci che si aggiudicherà. Non ho capito se si vince sempre o se può addirittura diventare un gioco di azzardo, ma non mi sono fidata abbastanza per provare a giocare, nonostante il monito all’ingresso del mercato che invita ad avere fiducia del prossimo per riuscire a compiere entrambi grandi affari.
Finiamo la giornata in un paio di mall tra la zona di Dongdang e Wangfujing, a riposare (anche se di panchine, per strada come in metro sono sempre molto parchi, forse per evitare i bivacchi) tra una vetrina e una altra guardando la gente, nelle sale giochi, nei bar (una ragazza con la sua famiglia ancora non ci crede quando le diciamo che veniamo dall’Italia, pronunciata Itàli), provando ora questo ora quello finché per l’ora di cena Entriamo in un ristorante thailandese dove consumeremo la migliore cena etnica di sempre.
Il giorno dopo partiamo lasciando una Pechino fredda e congestionata dal traffico per via dell’ennesima gara sportiva, questa volta è una corsa, che ha visto molte strade principali chiuse con conseguenti deviazioni problematiche.
Questo assaggio di Cina mi ha soddisfatto e molto ma non mi ha del tutto saziato. Pechino è stata un’esperienza, sotto tutti i punti di vista, culinario, umano, culturale, naturalistico, un viaggio nel vero senso della parola destinato a farmi innamorare ancora di più di quel continente straordinario che è l’Asia.