San Francisco è bella da morire.
Quanti di voi stanno pensando che abbiamo scoperto l’acqua calda, alzino la mano.
Però, aldilà della banalità, se ci si pensa bene, ha proprio tutte le qualità per essere considerata tale.
Nè troppo grande, nè troppo piccola, non una metropoli, piuttosto una città con i ritmi rilassati di un piccolo centro, dove la gente guida con calma (forse anche troppa, a volte), e ti saluta o sorride quando ti incontra per la strada.
Mai troppo calda, mai troppo fredda, il suo clima risulta ideale in tutte le stagioni.
San Francisco è mitica, per i suoi scorci, la sua storia, la sua baia.
È una miscela perfetta di natura e ingegno umano, quella risorsa in più che ha permesso di plasmare un territorio difficile come questo, per lo più collinare e sismico, e a farne un punto di forza, quasi un brand famoso nel mondo.
Chi non riconoscerebbe la città già solo dalla salita di Lombard Street o dai caratteristici sali-scendi dei cable car?
Questa seconda volta a San Francisco ce la siamo proprio goduta. Abbiamo avuto tutto il tempo necessario per conoscerla un po’ più a fondo, piano piano, quartiere per quartiere.
Siamo partiti subito dopo Natale per raggiungere il fratello di Valerio e sua moglie che si sono trasferiti a San Francisco da quasi un anno.
E’ stato un viaggio di famiglia a tutti gli effetti, con giornate piene all’aria aperta, ma anche momenti di intima pace, all’insegna della condivisione, delle chiacchiere e della voglia di stare insieme.
Forse i momenti piú belli sono stati proprio quelli non immortalati. Quelli che, in un certo senso, mi sono voluta tenere per me.
Arriviamo il 27 sera, stanchi morti, dopo uno scalo di 5 ore nell’asettico aeroporto di Monaco seguito da un volo di altre 12 stipati come sardine in un aereo antidiluviano e relativa fila per il controllo passaporti.
Non capirò mai perché non ci sia una priorità per chi viaggi con bambini piccoli…A quell’ora di sera sembrava un concerto organizzato dalla Benetton, poppanti da tutte le parti del mondo esausti e sull’orlo di una crisi di nervi a reclamare a gran voce il loro diritto a una sana dormita o mangiata.
Ritiriamo la macchina prenotata a noleggio, un SUV per sette persone che sembra un transatlantico e, con un mare di zaini e valige, arriviamo a destinazione.
L’alloggio è un appartamento prenotato su AirBnb nello stesso quartiere-no,che dico?- a 50 metri dalla casa di Adriano e Melissa in Outer Richmond, un quartiere molto tranquillo e tipico della middle class americana, con casette basse dalle facciate l’una diversa dall’altra, qualche ristorante cinese e un fornito supermercato Safeway in fondo alla strada.
Il palazzo è un edificio di legno color verde acqua, illuminato a festa e con delle grandi zucche a decorare l’ingresso e parte della strada sulla quale affaccia, Cabrillo Street.

È più spazioso di quanto immaginassi. Ha una cucina attrezzata (voglia di un cupcake? qui c’è tutto l’occorrente per preparne 100) con una utilissima zona laundry, un salotto arredato in tipico stile americano, tra il country e il kitsch, una camera da letto bella grande (evviva il king bed!) con bagno e una cabina armadio che a Roma mi sogno.
Katie e Chuck, i nostri due host, ci hanno lasciato un cesto di benvenuto carico di doni, dal vino della Napa Valley, alle barrette di cioccolato Ghirardelli e una stella natalizia per farci sentire un po’ di festa anche lontano da casa.
Loro però non ci sono. Un amico ci dice che torneranno da Philadelphia tra qualche giorno, in compenso ad attenderci c’é un comitato d’accoglienza tutto speciale.
Leo, un affettuoso husky divenuto ben presto il miglior amico di Samuele, a colpi di sleccazzate sulla faccia, e Tigger, un micione dal bellissimo pelo rosso, meno espansivo del suo coinquilino, ma curioso quanto basta per fargli ogni tanto lasciare il suo comodo giaciglio, proprio sotto l’albero di Natale, per venire ad annusare le nostre cose.


Gli host lasciano sempre la porta della propria casa aperta, adiacente alla nostra, per via della presenza dei due animali, in modo da dar loro libero passaggio dal garage, e quindi il giardino sul retro, all’interno dell’abitazione. Mi piace questa apertura mentale. Chi mai si fiderebbe a lasciare la propria casa aperta, in balia di estranei?
Portando su le valige viene spontaneo dare una sbirciatina fugace nel loro accogliente salotto… Adoro il profumo sprigionato dall’abete addobbato e il calduccio che proviene da qui dentro.
Emozionati e stanchissimi, l’indomani ci svegliamo presto per via del fuso orario. La giornata è bellissima così, dopo una spesa veloce, andiamo a fare una passeggiata in spiaggia.
Outer Richmond è avvolto dalla bellezza. Su un lato il verde dello sconfinato Golden Gate Park, in fondo il blu impetuoso di Ocean Beach e, salendo, i selvaggi panorami di Cliff House, del Parco di Land’s End e dei Sutro Bath, davvero a due passi.
Ocean Beach è immensa, baciata da un sole invernale caldo e accogliente, come la gente che la vive e viene qui a portare a spasso il cane, a tenersi in forma, a campeggiare improvvisando un riparo dietro alte dune di sabbia.
Dopo un pranzo vista mare al Beach Chalet, un punto ristoro dall’aria un po’ attempata, ma dalla indubbia posizione strategica, tra mare e bosco, ci inoltriamo a piedi nel fitto verde del parco del Golden Gate alle nostre spalle, dove dalle chiome degli alberi, spiccano le pale di un mulino a vento.

Costeggiamo magnifici campi da golf, da calcio, da tennis e arriviamo ad una ampia radura dove pascolano dei bisonti veri, si chiama Bison Paddock.
Sono bellissimi nelle loro pelliccione a ruminare indisturbati mentre tutti, tra grandi e piccoli, cercano di avvicinarli con ogni mezzo possibile, senza riuscirci.
La fatica che proviamo subito dopo questa bella camminata ci ricorda il lungo viaggio che abbiamo ancora bisogno di smaltire, così tornati a casa ci riposiamo un po’ per poi prendere del buon cibo cinese e andare a mangiarlo tutti insieme nella graziosa casetta di Adri e Mel.
La sensazione è quella di essere in una piccola, calda, baita di montagna, in città 😍
E quel pollo glassato al sesamo era la morte sua…
Il giorno dopo, 29 dicembre, partiamo alla volta del Muir Woods National Monument, un parco a nord di San Francisco dove è possibile ammirare una fitta foresta di sequoie sempreverdi.
C’è talmente tanta bolgia, però, che non riusciamo a trovare parcheggio, così decidiamo di procrastinare la visita e perderci tra le rilassate vie di Sausalito.
L’abbraccio caldo del sole, l’aria fresca sulla faccia, gli addobbi natalizi che rallegrano le vetrine delle botteghe tipiche, l’odore stuzzicante di cibo dai numerosi ristoranti vista mare, qualche leone marino a caccia a poca distanza da noi con lo sfondo della città all’orizzonte.
Tutto questo è Sausalito, una località tranquilla e prettamente vacanziera dove non c’è fattivamente nulla da vedere, ma dove l’atmosfera che si respira riesce a renderla speciale, come poche altre cittadine americane. Forse il paragone che mi viene subito in mente è Bar Harbor, ma con le dovute accortezze: in fin dei conti il Maine è il Maine😉
Tornando in città ci inerpichiamo lungo la salita di Marin Headlands, un punto di vista privilegiato sullo spettacolare Golden Gate Bridge, ancora più bello da questa angolazione, con la sempiterna fila di auto a invadere le sue corsie mobili e sotto l’abisso più profondo, solcato da navi, vertiginose correnti e mulinelli.
Stasera è una serata speciale: andiamo a teatro a vedere The Lion King, superba rappresentazione in chiave musical del celebre cartone Disney.
Il pupo è affidato alle amorevoli cure di nonna e zii (lezioni di inglese gratuite comprese😉), e anche se lo spettacolo è previsto per le 20, usciamo un po’ prima per concederci qualche momento per noi. Passiamo in spiaggia a goderci questo magnifico tramonto che ha dipinto il cielo di tutte le sfumature possibili di rosso e di rosa.
Non mi sembra vero di poter passeggiare per le strade di una città straniera e provare a viverla, anche solo per un giorno, come una del posto, partecipando ecco, a un evento come, appunto, può essere uno spettacolo teatrale.
Prendiamo un Lyft, grazie all’omonima app fichissima, che permette di risparmiare moltissimo sugli spostamenti in auto in città, più di Uber o di un normale taxi.
In pratica, si chiama il driver indicando l’indirizzo di prelievo, il più vicino può decidere se rispondere e, in caso, ti porta dove vuoi. Nell’attesa puoi sbirciare il suo profilo, la sua foto, da quanto tempo lavora con Lyft ecc ecc.
Quale è la differenza? Questi driver sono persone comuni che spesso fanno questo come secondo o terzo lavoro per arrotondare mettendo al servizio del pubblico la propria automobile personale.
Per risparmiare ancora di più c’è la possibilità di condividere le corse con altri passeggeri. Io lo trovo un modo fantastico per conoscere altre persone, anche solo per fare esercizio linguistico, ma nel concreto questa fame di soldi, di dover arrotondare, tanto da spingere a inventarsi un lavoro, come direbbero gli inglesi “out of the blue“, dal nulla, mi lascia un po’ perplessa sulla condizione economica attuale americana, o per lo meno, di San Francisco.
Se non hai uno stipendio ottimo, sei out. C’è poco da fare. Bisogna guadagnare più che bene per potersi permettere questi affitti, questi ristoranti, questi supermercati, per potersi permettere il lusso di ammalarsi.
Melissa mi spiega che molti dei barboni che si vedono girovagare, soprattutto in centro nella zona di Tenderloin, sono ex veterani di guerra abbandonati dal governo oppure è gente con qualche malattia psichiatrica che non ha potuto permettersi un’adeguata assicurazione sanitaria.
Dal lavoro esce tutto e nella società del consumismo per antonomasia, come quella americana, con i soldi guadagnati ti compri anche una dignità.
Penso a tutto questo quando il taxi ci lascia al Teatro Orpheum, in zona City Hall. Il palazzo omonimo è tutto illuminato di verde e di rosso per le feste, stasera è particolarmente bello. Peccato che sia impossibile fare una passeggiata nei dintorni prima dello spettacolo, come c’eravamo prefissati. Con tutti gli homeless che ci sono, sembrano un esercito, ci sentiamo come in un grottesco episodio di The Walking Dead.
Ci limitiamo a prenderci qualcosa di caldo nel bar di fronte il teatro, che guarda caso non ha bagni o tavolini per evitare possibili bivacchi, e aspettiamo pazientemente in piedi che ci facciano entrare.
Il teatro è molto old fashioned, con pesanti stucchi e tendaggi. Stasera è gremito.
Ovviamente non si potevano fare foto o video, ma per darvi un’idea di quello che abbiamo visto vi lascio una serie di estratti di alcuni dei momenti più belli ed emozionanti della rappresentazione.
Questo spettacolo, tra musiche, colori, costumi, coreografie è stata pura magia. Tra le cose più belle e commoventi che abbia mai visto!
Venerdì 30 andiamo al vicino parco di Land’s End, che si estende dalla Cliff House lungo la scogliera a nord di Outer Richmond passando per Eagle Point fino a Baker Beach.
Già dal parcheggio si notano, in fondo alla scogliera, gli storici Sutro Bath, delle piscine naturali di acqua salata che venivano usate già dalla fine del 1800 a scopi terapeutici. Prima ancora venivano usate come cisterne dagli indigeni per le loro provvigioni di acqua, sin da prima che si insediassero i coloni.
La passeggiata lungo il sentiero che si inerpica lungo la scogliera, all’ombra di una fitta foresta di conifere, con lo sfondo del leggendario Golden Gate Bridge e il rumore delle onde che si vanno a infrangere contro gli aguzzi scogli sotto di noi, è particolarmente piacevole e non mi sorprende che sia meta di sportivi, famiglie o semplicemente amanti della natura.
Oltretutto l’ingresso è gratuito, quindi non posso che consigliarla come top tra le attività che non possono mancare se avete da passare qualche giorno in più in città.
La camminata ci ha assorbito per tutta la mattinata, mettendoci anche un certo appetito. Melissa ci consiglia un posto in Balboa Street, proprio sopra casa loro, dove fanno solo dumpling, in tutte le salse, anche da asporto. Il servizio non è particolarmente amichevole, anzi, piuttosto sbrigativo, ma il cibo era eccezionale!
Nel pomeriggio passiamo a prendere Adri in ufficio in zona Financial District, uno dei quartieri che ricordo meglio insieme a Union Square e Chinatown, e ce ne andiamo a fare i turisti lungo i Pier.
L’atmosfera festosa è a dir poco contagiosa! Addobbi, luci, colori, musica, qualsiasi tipo di negozietto o ristorantino a disposizione e una allegra giostra con i cavalli al centro della piazzetta per fare divertire i più piccoli.
Al Pier 39 ci sono i leoni marini, appollaiati al sole sulle loro piattaforme in mezzo all’acqua. Io li adoro, sono troppo buffi, anche se Sami sembra più incuriosito dai numerosi traghetti che partono per l’isola di Alcatraz.
Passando per locali che propongono i classici panini al granchio e souvenir a strisce bianche e nere da galeotto, arriviamo in Ghirardelli Square, dove l’omonima cioccolateria è letteralmente presa d’assalto: ci sarà almeno un’ora di fila per entrare!
Rinunciamo alla nostra voglia di hot fudge sundae, e con la macchina andiamo a cenare in zona Marina passando per la celebre Lombard Street, in zona Pacific Heights.
Se cercate un ristorante come si deve bisogna venire a Marina, dove si concentra una straordinaria scelta di locali per tutti i gusti. Noi scegliamo un pub all’inglese chiamato The Tipsy Pig, dove tutto quello che abbiamo ordinato era buonissimo, persino la pastasciutta per Sami!
Il conto è in rapporto al tenore del quartiere, particolarmente benestante, e alla clientela che lo frequenta. Nel nostro sembrava ci fosse un raduno di modelle…
Sabato, San Silvestro, facciamo un bel giro per le vie di tre quartieri particolari: Twin Peaks, Castro e Mission.
Il primo è in altura ed è caratterizzato dalla presenza di belle case con vista e due colline gemelle, appunto, sulle quali ci si può arrampicare. Mi aspettavo un panorama migliore da lassù, ma in realtà le antenne di ricezione bloccano non poco la visuale, non permettendo neanche foto eccelse.
Scendiamo per Castro, un quartiere fondamentale nella storia della città e dove sono state portate avanti tante, tantissime battaglie a favore dei diritti per i gay di ogni popolo e classe sociale. È piccolino, non c’è molto da vedere, se non le bandiere arcobaleno appese un po’ ovunque per queste strade e dei murales coloratissimi e dal forte significato.
Mission è al confine con Castro, diviso da esso da semplici binari del treno. Si arriva a un parco immenso, il Dolores, con un attrezzato playground e zone erbose adibite ad altre attività ricreative, come sport o yoga.
Mission prende il nome dalla Mission Dolores, fondata nel 1776 da una delegazione di preti francescani venuti dalla Spagna per convertire gli indigeni al cattolicesimo.
Negli anni ’60 è stato interessato da una massiccia integrazione di messicani, portando con sé tutta una serie di tradizioni popolari che ne hanno fatto un quartiere particolarmente folkloristico e colorato.
Dagli anni’90 i vicoli di Mission si sono riempiti di meravigliosi murales. Ovunque è possibile imbattersi in vere e proprie opere d’arte, ma quelli più significativi dal punto di vista socio-politico sono in Clarion Alley Street, dove vengono sostituiti con una certa cadenza… Una vera e propria galleria a cielo aperto!
Dedicheremo dei post a parte per parlarvi della street art di Mission e Castro. Nel frattempo, vi lasciamo una piccola anticipazione.
Qui a Mission mangiamo in una bettola, ma è uno di quei rari locali che si possono davvero definire autentici, El Farolito. Semplicemente, il miglior burrito che la storia ricordi.
La taqueria affaccia su una piazza dove si sta esibendo una orchestra di gagliardi musicisti di mezza età di origine centro-americana. Sono bravissimi, e stanno intrattenendo il pubblico a suon di bossa nova e bachata. Impossibile stare fermi… L’atmosfera che si respira è da festa di paese, in pieno stile Cinco de Mayo.
La sera di Capodanno ci concediamo una cena sontuosa in un ristorante francese in zona Embarcadero, in modo da poter poi andare ai Pier dove sono previsti i fuochi d’artificio.
Abbiamo un tavolo prenotato per le 21:30, ma il nostro arrivo anticipato sembra gettare nel panico lo staff che ci fa aspettare nel piccolo atrio nell’attesa di prepararci un tavolo.
Il proprietario che è dietro al banco del bar, circondato da bottiglie di vino, e i camerieri in elegante divisa bianca e nera, hanno un accento gradevolissimo, un french-english molto orecchiabile.
Il locale è piccolino e un po’ buio, ha palloncini color perla e blu scuro che non sono riusciti a spiccare il volo per via del soffitto e come sottofondo musicale malinconiche canzoni di Aznavour.
Il servizio è lentissimo, facciamo mezzanotte ancora seduti a tavola, nell’attesa dei dessert, e rimaniamo sorpresi che nessuno si lasci andare a un festoso countdown o non passi tra i tavoli per brindare con due dita di champagne. Ma il cibo e il vino a tavola erano talmente buoni che gli si può perdonare tutto.
Buon anno gente!
Se il musical The Lion King ha rappresentato il mio modo di immergermi per un giorno nella cultura locale, Valerio ha scelto di assistere a una tradizionale partita di autentico football americano per fare altrettanto.
Musical:Alessia=Football:Valerio
Nello stadio Levi’s di Santa Clara, a circa due ore in macchina da San Francisco, domenica 1 gennaio gioca la squadra locale dei 49rs contro i Seattle Seahawks e così ci dividiamo.
Vale, Adri e Mel a tifare San Francisco, io a godermi pupo e suocera in una giornata all’insegna della lentezza.
Pranziamo con calma e usciamo per una lunghissima (alla fine scopriremo di aver percorso a piedi più di 5 km!) e super piacevole passeggiata attraverso il parco del Golden Gate.
Oggi lo vediamo nella sua seconda parte: l’altra volta ci eravamo fermati al Bison Paddock, stavolta andiamo oltre.
Superiamo un meraviglioso laghetto artificiale preso d’assalto da cigni e papere, costeggiamo un’ampia radura per i picnic, con tavoli e panche adibite allo scopo, oltrepassiamo una bella cascata con il sottostante stagno impreziosito da decorazioni neoclassiche, quindi siamo al Museo di Arte Contemporanea de Young.
Questo complesso è spettacolare già solo per la sua struttura, quella torre dall’aspetto attorcigliato, tutta di rame ossidato, alla quale si può accedere gratuitamente per vedere la città dall’alto. Fatelo perché ne vale davvero la pena.

Una volta scesi entriamo alla California Academy of Sciences, una costruzione incredibile dal punto di vista architettonico, con un tetto erboso definito non a caso “living roof”con degli originali oblò per far entrare luce.
Purtroppo il museo chiude alle 17, e visto che il costo del biglietto è piuttosto importante preferiamo rimandare la visita. Troviamo un tavolo alla caffetteria, decorata con splendide pareti ad acquario, e prendiamo un donut e un tè bollente sotto lo sguardo tonto delle carpe.
Uscendo il tempo è cambiato, un vento talmente freddo da penetrare nelle ossa si è alzato costringendoci a prendere un bus, con enorme gioia del piccolino. Siamo lessi. E il papà ancora di più, sorprendentemente, quando torna dallo stadio. Sembra quasi abbia giocato lui…
In realtà restare fermi sotto il freddo per quasi 4 ore, visti i numerosi break pubblicitari, non deve essere il massimo del riposo.
Però quando Sami sarà più grande non mi dispiacerebbe provare ad andare tutti e tre insieme. Vale mi ha confermato il suo ricordo alla stadio da bambino, quando a Washington andava a vedere le partite dei Redskins.
Il football americano è una festa corale. Ci si organizza con le birre e il barbecue e, a suon di hotdog e hamburger, si tifa tutti insieme, anche simpatizzanti di squadre diverse radunati in un unico settore, cantando cori a squarciagola e ubriachi come cocuzze.
Questo per me è il senso più alto di sport. Uguale al calcio, proprio…
Il 2 gennaio esploriamo un altro quartiere simbolo di San Francisco: Ashbury-Haight.
Insieme a Mission è il mio preferito.
Colorato, alternativo, trasgressivo.
If you’re going to San Francisco be sure to wear some flowers in your hair…
Eh sì, non si può fare a meno di canticchiarla.
Qui è nata la cultura hippie della Summer of Love. Da qui sono passati tutti i cortei di protesta politica contro la guerra del Vietnam negli anni ’60. Qui sono nati artisticamente talenti come Janis Joplin e Jimi Hendrix. Qui la psichedelia non è mai passata di moda ed è ancora una cosa seria.

Lungo gli incroci di Ashbury e di Haight i locali e i negozi interessanti non si riescono a contare.
Posticini minuscoli che propongono hamburger vegani, negozi che vendono o barattano strumenti musicali, vinili, libri, abiti, scarpe, centri tatuaggi e piercing, bazar che vendono chincaglieria indiana, abbigliamento militare.
Se volete fare qualche affare andate al Buffalo Exchange. Io ho preso un maglione e un cappotto usati, ma in perfetto stato a soli 50 dollari.
Mangiamo in un ristorante specializzato in brunch e crepes dolci e salate, molto tipico, si chiama Crepes on Cole, dal nome della strada dove sorge, proprio ad angolo.
Tornando ci fermiamo a Steiner Street, davanti Alamo Square, per vedere le Painted Ladies, un gruppo di casette dalle facciate colorate in stile vittoriano costruite alla fine del 1800, divenute celebri grazie alla sit-com Full House. San Francisco è piena di abitazioni come queste, però le “signorine” qui sono disposte in fila lungo la salita (o discesa) garantendo un vero e proprio effetto cartolina.
Prima di tornare a casa passiamo per il bel Parco di Presidio, con le sue eleganti ville in stile inglese, per la maggior parte di proprietà di alte cariche dell’esercito.
Da qui a Baker Beach il passo è breve. È incastonata tra il Parco di Presidio, appunto, e quello di Land’s End e permette in estate di prendere il sole all’ombra del Golden Gate Bridge. Mica male, no?
Oggi ci sono turisti, famiglie, pescatori e… Sami, che ride a squarciagola cercando di non farsi trovare impreparato da qualche cavallone. Inutile dire che siamo tornati a casa con un mare di sabbia nelle scarpe e quasi completamente zuppi😊
Il pomeriggio ce ne stiamo tranquilli a casuccia con la family. It’s laundry time.
Il 3 gennaio i ragazzi riprendono a lavorare, ma non per questo si ferma la nostra scoperta della città.
Stamattina visitiamo la California Academy of Sciences…In parole povere, una figata!
Entrando, un bellissimo scheletro di T-Rex ci dà il benvenuto, mentre alle sue spalle, in un ambiente che introduce agli animali e al clima tipici del Nord, un enorme pupazzo di neve fa sentire il clima di festa con una autentica nevicata! Sì, è proprio neve, atossica e digeribile, quella che scende e che fa urlare di gioia i bimbi presenti, un vero spettacolo.
Mi sento di darvi subito un consiglio. Appena entrate prenotate subito il vostro posto per il Planetarium.
Sono previsti due tipi di spettacolo, uno a tema Pianeta Terra, l’altro sull’Universo, entrambi a orari prefissati e con capienza limitata. Per accedervi bisogna ritirare dei voucher appositi compresi nel costo d’ingresso.
Cercate di organizzare la visita in funzione agli orari previsti per lo spettacolo che vi interessa seguire, tenendo conto che non fanno entrare i passeggini. Noi non l’abbiamo fatto e ci siamo ritrovati ad aver visto tutto il museo a due ore dal primo spettacolo disponibile.
La visita è completa e stimolante e, se si viaggia con i piccoli, è ancora più divertente.
Si può esplorare il regno della foresta pluviale, con la sua fitta vegetazione e i suoi straordinari esemplari di fauna.


Perdetevi nelle sale dell’acquario, dai pesci di acqua dolce, agli squali, dalle vasche tattili, dove potrete carezzare grosse stelle di mare, alle creature degli abissi.
Ne abbiamo girati di acquari, tra Valencia e ultimamente anche quello di Copenhagen, ma non avevo mai visto tanta varietà tutta insieme. Ci sono esemplari che non mi era mai capitato di vedere prima come, ad esempio, i “Dollari della Sabbia”.
Solo qui si può trovare un vero acquario tropicale, un planetario e contemporaneamente un coccodrillo albino, Claude, al piano di sopra.

E poi c’è tutta la parte dedicata ai terremoti, con tanto di casa traballante che aiuta a farsi un’idea della devastante scossa sismica dovuta allo spaccamento della faglia di Sant’Andrea del 1906, lo spazio per la geografia astronomica, per la biodiversità, la genetica, le gemme e i minerali.
Tutto in chiave ludico-didattica, senza annoiare, e organizzata come solo gli americani sanno fare.
La definirei una tappa obbligatoria per le famiglie, soprattutto per chi ha bimbi sotto i tre anni… L’ingresso è gratuito per loro. Per gli adulti costa caro. 35 dollari a persona, anche se è vero che l’intero ricavato va alla ricerca.
Per chi non viaggiasse con bambini o non fosse interessato a tutto questo sapere, si può accedere al ristorante del museo dalle 17 in poi per un aperitivo diverso, proprio in prossimità del Living Roof.
Altrimenti date un’occhiata sul sito agli eventi extra che si organizzano soprattutto d’estate. Mel e Adriano, per dirne una, hanno partecipato a un corso di yoga sotto le stelle del planetario gratuitamente.
Piove a dirotto quando usciamo da lì, ma andiamo comunque a farci un giro in centro, a Union Square, dove un albero di Natale color oro riesce a impreziosire l’ambiente. Non troviamo parcheggio, peccato, non ci sarebbe dispiaciuto fare shopping in saldo, e complice un po’ di stanchezza preferiamo tornare a casa.
L’indomani, giornata uggiosa, attraversiamo di nuovo il Golden Gate Bridge per andare a vedere Berkeley, prestigioso polo universitario dalla bellezza di 50.000 dollari annui, alloggio escluso.
Posso dire che è stata una grande delusione?
Probabilmente non ha giovato vederla di inverno, sotto la pioggia, il freddo e parte della città universitaria ancora vuota per via delle vacanze natalizie appena trascorse, fatto sta che l’ateneo mi sembra piccolino e piuttosto anonimo (mi è venuto naturale fare il confronto con Harvard…Tutto un altro carisma…), mentre nei dintorni meritano solo le antiche abitazioni in stile vittoriano ormai adibite a dormitori suddivisi per confraternite.
Ci fermiamo per prendere qualcosa di caldo in quello che ha tutto l’aspetto di un bar per studenti, con i tavolini occupati da libri e laptop e un listino prezzi più abbordabile rispetto agli standard. Peccato che il caffè sia imbevibile…
Passiamo gran parte del nostro tempo all’interno di un grande negozio che ha un ricco reparto merchandising dei Golden Bears, la squadra di football collegiale, per ripararci dalla pioggia.
Per pranzo troviamo un ristorante thailandese dal nome semplice, ma che si rivelerà squisito: The Noodle. La mia zuppa tradizionale con latte di cocco e pollo, mi pare fosse il Tom Kha Gai, era eccezionale. Per non parlare della gentilezza del personale, timido e sorridente…Troppo carini.
Torniamo in città sotto un bell’acquazzone, ma ci sembra ancora presto per chiuderci in casa, così passiamo al Golden Gate Park per visitare il Conservatory of Flowers, una bella serra in stile Vittoriano, di legno e vetro, che con il suo candore spicca inevitabilmente in mezzo a tutto il verde che la circonda.
L’ingresso costa solo 8 dollari, gratuito per i bambini, e permette una passeggiata tra piante acquatiche e tropicali, tra carnivore e officinali, in mezzo a un tripudio di colori e farfalle. Piacevole davvero.
La pioggia oggi non molla quindi in macchina passiamo al Japanese Tea Garden, una delle parti più antiche del Golden Gate Park. Nato come villaggio giapponese alla fine del 1800, divenne ben presto un punto di riferimento per la nutrita comunità asiatica della città.

Oggi è un giardino orientale a pagamento con laghetti, ponticelli, templi e un punto ristoro.
Non siamo entrati, abbiamo sbirciato solo dall’esterno, così stavolta per davvero, torniamo a casa, dove finalmente conosciamo Katie, la padrona di casa, e Violet, la sua figlia adolescente, dolcissime nel portarci un mazzo di rose e ciclamini bianchi, già a mollo nel loro vaso, per “farsi perdonare per il ritardo”.
Credo intendano nelle presentazioni, le vediamo solo ora dopo giorni che siamo arrivati, ma sono così carine che non stiamo più di tanto a sindacare. Questa casetta con tutti i suoi abitanti è stata davvero il valore aggiunto a questo viaggio ❤
Il 5 gennaio partiamo alla volta del Muir Woods National Monument, un bosco di sequoie sempreverdi a nord di San Francisco dichiarato monumento nazionale nel 1908 dal Presidente Roosvelt.
Il nome Muir deriva dall’omonimo naturalista che definì questo sopravvissuto tratto di sequoie costiere (le altre vennero tutte massicciamente abbattute dai boscaioli nel XIX secolo) come “Il miglior monumento per gli amanti degli alberi che si possa trovare sulla faccia della Terra“.
Il costo d’ingresso è di soli 10 dollari e li vale tutti.
Si accede a una passeggiata su pontili leggermente elevati da terra, per preservare le delicate radici delle sequoie, e si entra in un mondo che pare incantato, fatto di giganti di legno silenziosi e solenni che seguono il tuo cammino nella penombra e nella pace più assoluta.
Le mappe che troverete lungo il percorso sono fatte molto bene e permettono anche dei sentieri più avventurosi per gli amanti del trekking che si vanno a inerpicare lungo i pendii delle montagne circostanti.
Le sequoie mi avevano impressionato quando le vidi per la prima volta nel Parco di Sequoia, appunto, nel 2010, ma mai avrei immaginato scenari simili a pochi km dalla città.
Sono enormi. Alcune ancora solide nonostante gli anni, altre sono cadute, minate da qualche subdolo parassita interno, certe altre sono vecchie più di un secolo.
Il mio consiglio è di andare la mattina presto, come abbiamo fatto noi. Non c’era praticamente nessuno e questo ha senz’altro acuito la sensazione di trovarsi in un bosco lontano dal tempo e lo spazio.
Ma non solo. Ve lo consiglio anche per i parcheggi. I posti macchina non sono molti, si esauriscono in fretta, specialmente nei weekend o nei giorni di festa. Per chi non avesse la macchina ci sono dei servizi navetta gratuiti che partono da Sausalito da marzo a ottobre.
Tornando verso San Francisco ci siamo ricordati di un delizioso diner in zona Presidio dove eravamo stati a mangiare ben 6 anni prima e pensiamo di provare a cercare se è ancora lì.
Il posto c’è ancora, eccome, ed è esattamente come lo ricordavo. Si chiama Mel’s ed è il classico diner anni’50 che si vede nei film, con i camerieri con la divisa e il cappellino bianchi che girano con le caraffe di caffè lungo in mano, i juke box ai tavoli e l’arredamento tutto cromato e dalle rassicuranti linee arrotondate e ingombranti tipiche dell’epoca.
Credo ci abbiano girato American Graffiti, perché le pareti sono piene di poster legate al regista e al protagonista Ron Howard.
Mangiamo degli hamburger favolosi e mi piace pensare che la prima volta che siamo venuti eravamo solo in due, mentre oggi tra le ordinazioni c’era anche un kid menu, arrivato in un originale piatto che era un furgoncino di cartone da costruire in 3d con cui poter giocare.
Dopo pranzo facciamo una passeggiata nel Parco di Presidio, in quell’area che si chiama Crissy Field, vicino il cimitero militare.
Un prato che sembra sconfinato, nient’altro che quello, ma che ti apre cuore e polmoni per la vista che offre. Il Golden Gate Bridge, il mare, la spiaggia, l’isola di Alcatraz e dietro lo skyline del Financial District. Fantastico.
E’ pieno di gente che si gode questo scenario all’aria aperta prima che tramonti il sole e quindi che le temperature si facciano via via più rigide. Bambini che giocano con un aquilone, ragazzi in bicicletta, jogger col proprio cane al guinzaglio. Uno spazio prezioso.
Per l’Epifania, che qui non si festeggia, andiamo a fare una gita nella Napa Valley, circa un’oretta di macchina da San Francisco lungo un panorama affascinante che cambia immediatamente appena usciti dal cemento della città.
La grandezza e la varietà dell’America si vede in questi viaggi in auto, dove i centri abitati sono spesso circondati dalla natura più vasta e generosa. Questo è anche il caso della Napa Valley, un territorio baciato dalla fortuna e plasmato dal lavoro faticoso di tanti viticoltori e agricoltori che ne hanno fatto un fiore all’occhiello della gastronomia mondiale.
Scopriamo che per visitare le winery house (Melissa ce ne ha consigliata qualcuna per provare a fare una cernita…ce ne sono a bizzeffe), molto spesso magioni che vorrebbero somigliare nell’aspetto ai classici casolari della campagna toscana (senza neanche lontanamente avvicinarsi nell’intento…), bisogna spesso pagare un ingresso di circa 30 dollari, e anche la maggior parte delle degustazioni non sono quasi mai del tutto gratuite. Ora, siamo con un bambino piccolo, non siamo grandi bevitori, pensiamo valga la pena proseguire fino all’omonimo paesino di Napa per una semplice passeggiata e magari destinare il tour vinicolo a un altro momento.
E così facciamo. Troviamo parcheggio al mercato coperto di Napa, un insieme di stand di piccoli produttori locali che propongono birre artigianali, cioccolato, muffin e cupcake, carne, pesce, formaggi, ma anche olii essenziali, artigianato, vino e olio, frutta e verdura, libri. Ce n’è per tutti i gusti e si può mangiare direttamente nell’area food court al centro del capannone. Terminato il pasto girovaghiamo senza una meta precisa per il paese, che ha un aspetto calmo e sonnacchioso, come le dolci colline circostanti.
Per arrivare al Mill, un vecchio mulino oggi adibito ad aerea commerciale con affaccio diretto sul fiume, passiamo lungo un corso ricco di negozi di pregiato abbigliamento in lana e cachemire, oggettistica, perchè non si possono definire banalmente souvenir, e anche un ampio e completo ufficio della pro loco dove, prodighi di informazioni, ci aspettano quelli che immagino essere i tre anziani più agiati del paese, due uomini e una donna, lei in elegante parure di perle.
Uno dei due uomini si avvicina per chiederci da dove veniamo, e quando sente che proveniamo da Roma, ci racconta che anche lui ci è stato da giovane e che l’ha trovata incantevole. Oggi passa la sua vita 6 mesi qui e gli altri 6 nel Maine, dove ha un’altra casa, a proposito di posti incantevoli. Beato lui. Forse non avevo poi sbagliato di molto a immaginarmelo come uno dei vecchietti più agiati del circondario…;)
Sapevate che oltre al vino, Napa è famosa anche per il suo centro termale? Io no, ma adesso mi spiego la presenza di così tante persone anziane. Ecco, il paese e la valle sono molto piacevoli, ma a meno che non fossi ricca o anziana non credo ci tornerei. Mi è sembrato uno di quei centri dove gli anziani facoltosi vanno a svernare.
Tornati in città, ci prepariamo per la cena, l’ultima che passeremo insieme prima della partenza prevista per domani alle 19. I ragazzi ci portano in un ristorante birmano, il Mandalay, dove una cameriera dai modi spicci regola il traffico di clienti in entrata e in uscita e dove tutto è favoloso, dai cocktail a base di mango e yogurt, per smorzare il piccante, mi dicono, ai piatti sfiziosi a base di spezie come coriandolo, lime, lemon grass. Forse sono di parte, la cucina asiatica è tra le mie preferite in assoluto, ma qui la qualità e la freschezza mi sono sembrate piuttosto alte.
La serata vola tra chiacchiere allegre e bilanci, cosa ci è piaciuto di più e di meno, e già sento salire un po’ di malinconia e malumore al pensiero del lungo viaggio che ci aspetta domani.
Il giorno dopo andiamo a fare una colazione a base di fantastici pancake in casa di Adri e Mel, lasciamo Sami per farlo spupazzare a dovere dagli zii mentre noi sistemiamo casa e valige.
San Francisco ci è entrata nel cuore e capisco la scelta dei ragazzi nel volersi trasferire qui. Come biasimarli? Ci salutiamo dandoci appuntamento a Natale, quando loro dovrebbero raggiungerci a Roma, e partiamo accompagnati da una pioggerella sottile sottile che rende tutto molto più triste.
Lasciamo la macchina alla Budget e nel prendere il treno per raggiungere il gate assistiamo a quello che deve essere stato un infarto o un ictus di un signore australiano che stava viaggiando con moglie e figlio adolescente. Lo vediamo un attimo prima in piedi e poi,-bum- un rumore sordo e lui immobile per terra, senza respiro e con un colorito che non promette niente di buono. Tutti immobili, a parte le urla della moglie e il pianto disperato del figlio e ci ritroviamo come in un film, a cercare il freno per bloccare il treno in stazione e il telefono per comunicare l’emergenza.
Ve lo immaginate, io con il mio inglese intermittente, a dare l’allarme e cercare aiuto?!
Sembrano tutti i presupposti per un nuovo #èSuccessoDavvero? ,ma vi assicuro che l’ansia e la paura erano reali e mi sono ritrovata sulla banchina a cercare di distrarre Sami dai vani tentativi di rianimazione dei paramedici, arrivati con calma con la strumentazione necessaria e un po’ troppa ostentazione nell’invitarci, per la milionesima volta, ad allontanarci per dare più spazio di manovra possibile. Un film davvero. Lacrime comprese.
Ce ne andiamo con il poveretto che ha ripreso a respirare e noi, una volta confortata la moglie, non possiamo che salutare e andarcene ancora visibilmente scossi.
Il volo con la Swiss fino a Zurigo sarà scomodo, ma tranquillo. Zurigo è sotto la neve e l’aeroporto è entrato di diritto tra quelli più child friendly mai visti. Una intera area dedicata ai più piccoli, sembra un asilo! C’è la postazione fasciatoi con tutto l’occorrente per il cambio, più forni a microonde per riscaldare pappe e biberon, una zona dedicata ai genitori, con prese di corrente per cellulari e pc e giochi e giocattoli di legno per la ricreazione dei più piccoli, il tutto in un tripudio di colori, disegni e decorazioni. Fantastico!
Il volo fino a Roma sarà senza scossoni e Sami si conferma come il nostro miglior compagno di viaggio.
Alla prossima avventura gente!
See you soon, San Francisco…