Cape Town 2016

Di partenze ne abbiamo fatte tante, ma nessuna come questa. Essere genitori ti cambia visceralmente e per una insicura come me significa avere dubbi, su dubbi, su dubbi…(ho detto dubbi?)

Essere genitori, si sa, cambia anche il tuo modo di viaggiare.

Il tuo bagaglio viene ridotto al minimo (in pratica, solo le mutande), mentre per il pupo, tra pappe, body e tutine per le quattro stagioni, bavaglini, giocattoli, biberon e compagnia bella, si potrebbe aprire un bazar.

In aereo puoi anche scordarti quelle maratone di film con cui ti piaceva tanto passare il tempo. Io ero capace di guardarne anche 3-4 per volta, entrando in un inquietante loop che quasi mi faceva odiare il pilota quando avvisava dell’imminente atterraggio, magari bloccandomi il finale.

Con un bambino l’unica cosa che conta è riuscire a farlo stare il più possibile comodo, lui che ha viaggiato sulle nostre gambe per tutto il tempo, intrattenendolo con giochi e chiacchiere. A terra si fa attenzione a tutte quelle facilities a prova di mammifera, e quindi fasciatoi, passeggini di cortesia, dove poter scaldare la pappa nel più breve tempo possibile, tanto che in futuro non mi dispiacerebbe scrivere un post al riguardo. Ma ho ancora troppa poca esperienza.

Per il momento dico solo che ho passato giorni a chiedermi come Samuele avrebbe preso questo lungo viaggio, cosa avrei potuto fare in aereo e in aeroporto per cercare di alleviargli la fatica ma, come spesso succede, il nodo si scioglie da sè ed è sempre il bambino a indicarti come fare, è lui che conosce le risposte e te le indica in maniera chiara, lineare, e tu non devi far altro che ascoltare. Mi sono quasi sentita stupida ad aver avuto tutti quei dubbi…

Per quel che riguarda noi “grandi”, possiamo dire che tutte le nostre aspettative, molte delle quali raccontate qui,  sono state ampiamente soddisfatte… Anzi, forse anche qualcosina di più, considerando che questo è nato come un viaggio di lavoro.

Di sicuro io che prima di partire pensavo che una settimana intera sarebbe stata troppa da dedicarle, ora posso dire che sette giorni sono troppo pochi, e che per vedere città e dintorni per bene e capire Cape Town, immergendosi nella sua straordinaria cultura, necessita di ben più tempo.

Io non sarei più andata via. Ho persino vagheggiato all’idea di trasferirmi qui, un giorno…

Più in là arriverà qualche post di approfondimento, ma per ora vi lasciamo leggere le pagine del diario come sempre scritto in presa diretta, a caldo, correlato da foto.

Buona lettura….

Giorno 0

Sono a Cape Town, nell’appartamento che ci ospiterà per una settimana e approfitto a buttar giù qualche pensiero a caldo approfittando che Sami sta riposando.

Il volo da Roma a Dubai è stato lungo, ma in parte alleviato dall’aereo della Emirates. Era fichissimo! Al buio il tetto si illuminava di stelle e poi le hostess, bellissime con i loro rossetti rosso fuoco, sono state tutte molto disponibili, ricoprendo il bambino di  gadget e attenzioni, non potevo proprio chiedere di più.

A Dubai facciamo una sosta di 4 ore, ma non ce ne accorgiamo neanche, e ne  approfittiamo per mangiare un pasto come si deve (o quasi) in una steak house chiamata Jack’s, come il superalcolico, dove se vuoi puoi anche farti una foto su una panchina accanto alla sua kitchissima sagoma.

Facciamo il pieno di vitamine a un chioschetto che fa centrifughe espresse (che buono il mango con il frutto della passione!) e mentre ci incamminiamo al gate penso a come gli aeroporti siano affascinanti sì, ma vagamente alienanti. Qui siamo a Dubai, ma non c’è niente che ci dia degli indizi al riguardo, a parte la nostra carta d’imbarco. Potremmo tranquillamente essere a Londra, Francoforte o Zurigo. Non c’è niente di tipico, mentre di arabi veri e propri neanche a parlarne, anzi, scherzando diciamo di averne visti di più a Piazza Vittorio a Roma.

Probabilmente Dubai è diventata talmente occidentalizzata da aver un po’ perso la sua identità di paese medio orientale… Oppure ho troppo sonno e troppa stanchezza per fare dei pensieri sensati…Le cose sono due…

Non mi dispiacerebbe comunque tornare qui, magari per un weekend lungo.

Dubai mi incuriosisce davvero.

Sono le quattro del mattino quando saliamo su un aereo non proprio nuovissimo e ci immergiamo in nove, dilatatissime ore, fino a destinazione. Sami ha dormito quasi tutto il tempo, beato lui, spalmandosi su noi due e anche un pochino sul povero F., il collega di Valerio in volo con noi, che con la sua lucina accesa cercava di preparare un discorso come si deve per introdurre il suo lavoro alla conferenza di domani.

Arriviamo puntuali in una Cape Town avvolta dalle nuvole… Non proprio il clima che ci si aspetta quando si parla di Africa, anche se qui è cominciato l’autunno a tutti gli effetti.

Al controllo passaporti sono tutti gentilissimi e, recuperati bagagli e passeggino, passiamo al banco della Avis per ritirare la nostra auto con seggiolino.

Piove a dirotto quando a bordo della nostra Toyota Avanza color oro (subito ribattezzata “Avanzo” visto allestimento, cilindrata e comodità praticamente inesistenti) ci inoltriamo per le trafficate strade di Cape Town, delle boulevard fiancheggiate da baraccopoli di capanne in lamiera alternate a sobborghi signorili, composti di casupole basse in muratura dove ovunque si avvisa delle presenza di vigilanti per garantire sicurezza. 

Impareremo nei prossimi giorni a convivere con queste lampanti idiosincrasie e capiremo ben presto quanto Cape Town, ma forse il Sud Africa intero, sia controverso. 

Ci perdiamo, nonostante il navigatore, e quando finalmente arriviamo downtown al Circa Hotel siamo davvero stremati. Sbrighiamo in fretta le pratiche del check-in e saliamo al settimo e ultimo piano dove ci aspetta un appartamento nuovo, modernissimo, tutto in legno e vetro, con degli spazi così importanti da volerli desiderare anche a casa.

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La vista non è il massimo, un miscuglio di palazzi e palazzoni grigi, ma dietro a far da fondale, seppur ricoperta da una spessa coltre di nubi, si riesce ad indovinare l’imponente, quasi minacciosa, sagoma della Table Mountain.

Ci mettiamo comodi, laviamo via un po’di stanchezza, recuperiamo qualche ora di sonno. Sami sembra entrato in letargo, non ce la sentiamo di svegliarlo per uscire a mangiare, così ordiniamo la cena dal bistrot dell’albergo, una schnitzel di manzo con formaggio fuso e vari contorni, tra i quali dei deliziosi spinaci saltati con pinoli, e delle alette di pollo ruspante leggermente glassate con salsa bbq. Brindiamo con uno sfizioso sidro ghiacciato.

Che la nostra avventura africana abbia inizio!

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Giorno 1

Piove. E fa freddo. Vale sarà impegnato per gran parte della giornata al Centro Conferenze e io devo organizzarmi un programma alternativo, un po’ perché sono curiosissima di cominciare a esplorare, un po’ perché questo piccoletto ha tanta, tanta voglia di muoversi, e non riesco proprio a tenerlo chiuso in casa. Per fortuna che ieri sera è arrivata la moglie del collega di Vale, con la quale ci vediamo dopo colazione per un primo giro perlustrativo.

Sono alla ricerca di un po’ di verdura fresca per organizzarmi le pappe del bimbo e a piedi ci incamminiamo verso il centro. Trovare un supermercato non è così facile. Ci sono fast food ad ogni angolo, piccoli mall un po’ tristi dove poter comprare vestiti economici, qualche farmacia, bancarelle di borse e ombrelli, ma di supermercati nisba. Ne troviamo uno un po’ nascosto sotto i portici bui di una piazza, pervaso da puzza di fritto e cibo pronto da rosticceria già di prima mattina. Sembra ci sia solo una quantità inverosimile di colorate bibite zuccherate, finché scorgiamo un piccolo banco frigo dove trova posto qualche cavolo, un paio di pomodori, patate e cipolle.

Il nostro tour finisce qui.

Qui intorno ci sono solo uffici e in più raramente mi è capitato di sentirmi così a disagio a camminare per le strade di una nuova città…Non ci è successo niente in particolare, ma nei giorni seguenti verremo a sapere che la zona in cui pernottiamo è considerata ad alta pericolosità, tanto da sconsigliare di girare a piedi, soprattutto di notte, e comunque sempre accompagnati.

E dire che prima di partire avevo letto di Cape Town come di una città sicura, al pari quasi di una qualsiasi città europea, ma evidentemente non ci si riferiva alla downtown oppure i blog e i forum che ho letto hanno opinioni… come dire…unilaterali…

Nei giorni che seguiranno avremo modo di ascoltare l’esperienza di altri due ragazzi del gruppo di lavoro minacciati con un coltello in due occasioni diverse e di un’altra donna loro collega aggredita.

Quindi, occhio a dove capitate e se potete noleggiate una macchina, così da evitare spostamenti a piedi, con i mezzi pubblici o in taxi, che comunque dovrebbero essere sempre consigliati dalla struttura in cui vi trovate, così da scongiurare qualsiasi rischio di capitare a bordo di uno abusivo.

Tornate in albergo il tempo passa rapidamente raccontandoci le ultime novità davanti a un pranzo leggero, mentre fuori imperversa il temporale.

La sera, radunata la truppa, ce ne andiamo in una zona bellissima di Cape Town, il Victoria&Alfred Waterfront.  La parte del vecchio porto è stata trasformata in una vasta area turistica piena di locali, negozi e attrazioni come il famoso Acquario. A rendere ancora più allegra la situazione, semmai ce ne fosse bisogno, c’è una deliziosa ferry wheel tutta illuminata a festa, che per soli 100 rand (1 euro= 16 rand) ti permette un giro di dieci minuti per godere del panorama dall’alto… Turning for good!

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Troviamo un ristorante dove servono cibo africano, si chiama Karibù. Ci apparecchiano fuori, su una terrazza vista molo, al caldo delle stufe e delle coperte di pile in dotazione.

I camerieri sono attenti e premurosi, ci consigliano uno squisito vino shiraz da accompagnare alle innumerevoli portate che tra poco imbandiranno la nostra tavola, tra le quali, il bobooti, una specie di quiche con trito di carne, uvetta e spezie, il biltong, sfiziosi ritagli di carne speziata ed essiccata (ATTENZIONE: PUO’ DARE DIPENDENZA :)), lo springbok shank, coscia di antilope springbok in umido, il putu, una sorta di porridge farinoso a mò di contorno, il chakalaka, una salsa a base di pomodoro e cipolla con cui si accompagnano varie pietanze.

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Giorno 2

Il sole si è finalmente deciso ad uscire e pieni di entusiasmo scendiamo a far colazione. La sala è al piano terreno, con grandi vetrate luminose che danno direttamente su una piazza pedonale decorata da qualche albero e da originali lampade a forma di squalo.

Con noi c’è una famiglia africana, madre, padre, nonna, vestita di un bellissimo abito tradizionale sui toni del nero e del giallo, e almeno tre bambini di tre diverse generazioni. Il capofamiglia è prima di noi in fila al ricco buffet, ma gentilmente si volta per chiederci di passargli avanti. E a me questo semplice gesto ha sbalordito e in un certo senso commosso. Commosso perché non mi è mai capitata una simile premura (a Roma casomai è il contrario, riuscire a passare in fila quando ti spetta senza essere prevaricati), un po’ perché questo tipo di attenzione è comune nei confronti dei bianchi, e penso con amarezza a quanto anni e anni di schiavitù e apartheid siano riusciti a forgiare il carattere di queste persone tanto da renderle così miti e mansuete.

Spieghiamo al brav’uomo che non c’è motivo che gli passiamo avanti e lui, quasi scusandosi, spiega che con la sua numerosa famiglia potrebbero volerci mesi prima di riuscire a riempire i nostri piatti. Ma noi non abbiamo fretta, anzi, dovremo attendere i nostri compagni di viaggio per un’improvvisa mail di lavoro che li tratterrà in camera più del previsto.

Nell’attesa usciamo per fare qualche foto. Attigua all’hotel, dicevo, c’è una piazza dove delle figure umane intente a svolgere azioni comuni come camminare, sedersi, giocare possono quasi confondere finché avvicinandosi si scopre che sono delle sculture. Un uomo approccia Valerio chiedendo dei soldi. L’ennesimo. Qui in centro è pieno di mendicanti che non desistono al primo “no” e spesso ti pedinano. Valerio spiega che non ne ha (è vero, dobbiamo ancora prelevare dal bancomat), ma lui invece di andarsene si fa insistente fino ad arrivare alla minaccia.

“Mi sono fatto sei mesi di carcere, non voglio commettere altri crimini. Potrei prenderti la macchina fotografica, potrei prenderti il bambino, ma io non voglio commettere altri crimini”. Fortunatamente la reception dell’albergo è vicina. Il semplice gesto di entrare ha fatto scattare due energumeni, due body guard della struttura, che l’hanno invitato ad andarsene, ma come ho già detto in precedenza, queste scene sono molto comuni nel centro di Cape Town, e bisogna fare molta attenzione.

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Quando i nostri amici sono finalmente pronti, partiamo alla scoperta delle bellezze nei dintorni di Cape Town.

Visitiamo la spiaggia di Muizenberg, vivace centro balneare con parchi gioco, piste da minigolf e soprattutto chilometri di bianca spiaggia schiaffeggiata dal vento, meta di surfisti di ogni età.

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Per colpa di certi interminabili lavori stradali percorriamo poca chilometri e siamo costretti a fermarci alla vicina Kalk Bay per il pranzo, piena di vita, locali e cafè. Qui, per caso, a ridosso di un porticciolo pittoresco, dove i pescatori hanno appena lasciato il loro carico di pesce, scoviamo una friggitoria dove preparano il miglior fish’n’chips del mondo! Ok, magari non è così, ma vi assicuro che i piattoni di patate, filetti di pesce, calamari e gamberi che vi presenteranno vi ricorderanno un pranzo nuziale!

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Trasporti “alternativi”

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Con calma ripartiamo alla volta di Boulders Beach, la splendida spiaggia dei pinguini. Il sentiero che si inerpica sulla costa vi porterà all’ingresso del Visitor Centre, una magnifica passeggiata in mezzo alla natura tra pinguini e simpatici dassie, una specie di marmotta senza coda dall’aria paciosa.

Da qui si gode di una meravigliosa vista sull’ansa blu del mare e il grigio chiaro degli scogli e tanti, tantissimi pinguini a nuotare, a prendere il sole, o i più curiosi vicino la staccionata per vedere passare i turisti, mentre all’ombra degli arbusti ci si riposa o si covano uova. Per noi amanti degli animali questi momenti sono preziosi e indimenticabili e pensiamo che solo per questo spettacolo valga il viaggio.

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Tra gli spari di un’esercitazione dalla vicina base militare di Glenoury ci rimettiamo in cammino verso il Table Mountain and Cape of Good Hope National Park.

Credo che a parole sia impossibile descrivere la bellezza di questi luoghi, di questi panorami, ma soprattutto emozioni come il silenzio, il sibilo del vento, l’odore forte del mare, le onde bianche con la loro spuma dirompente che vanno a morire addosso alla vertiginosa scogliera, la gioia inaspettata di aver incontrato tanti animali liberi, come struzzi e babbuini. Quindi preferiamo mostrarvi le foto, che comunque trasmetteranno solo una parte di quello che vorremmo raccontarvi. 

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Torniamo in albergo sul tardi, facendo non la strada dell’andata, ma proseguendo sulla M65. Sta scendendo la nebbia e il viaggio si carica di nuove sfumature sensoriali, fatte di tramonti struggenti, dune di sabbia bianca e lontane figure mano nella mano sullo specchio del bagnasciuga a far passeggiare un cagnolino scodinzolante. Il cuore si stringe a passare per sobborghi poverissimi, dove le baracche di lamiera e copertoni sono talmente attaccate tra loro da sembrare un alveare, finché la bellezza di Cape Town illuminata per la sera si spalanca sotto i nostri piedi, e io silenziosa e pensierosa, ho davvero la sensazione di essere tornata da una madre, pronta sempre ad accoglierti ed ascoltare le tue innumerevoli storie.

Siamo stanchi, è vero, ma di quelle stanchezze miste a gioia, soddisfazione, di quelle stanchezze costruttive che ti fanno addormentare con il sorriso.

domani si va alla Table Mountain.

Giorno 3

La giornata splende di una luce gloriosa! Ecco finalmente il cielo d’Africa che mi aspettavo, un tetto blu intenso su di noi, come una benedizione, come un lenzuolo leggero totalmente sgombro di nuvole.

Oggi andiamo in gita alla Table Mountain, la Settima Meraviglia Naturale del Mondo, e pregustiamo già dalle piazzole panoramiche lungo la strada cosa ci aspetterà dall’alto, ma ancora non sarà sufficiente.

C’è una fila infinita alla biglietteria della cabinovia, siamo costretti a parcheggiare l’auto lontanissimi dall’ingresso, ma abbiamo tutto il tempo per acquistare i biglietti on line ed evitare la coda.

Fatta la foto di rito dai ragazzi del merchandising, che poi ti proporranno con tutta una serie di fotomontaggi, gadget e cianfrusaglie inutili, saliamo alla cabina della funicolare che ci porterà in cima.

Fa un freddo micidiale, ma devo dire che l’attesa è snella, sono tutti molto efficienti e veloci.

La cabinovia è attiva dal 1929 ed è stata rimodernata nel 2007. La particolarità delle cabine è che ruotano permettendo ai visitatori, massimo 65 per capsula, di godere di una vista ottimale. Si impiegano solo 7 minuti per arrivare sul tetto del mondo, ma volendo ci sono anche sentieri per praticare trekking o intere pareti granitiche da sfidare.

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Su in cima alla “Tovaglia” il panorama è mozzafiato. Ai nostri piedi la collina di Signal Hill e Lion’s Head mentre al largo Robben Island viene solcata da bianche e apparentemente immobili onde infuriate.

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Possiamo stare tutto il tempo che vogliamo (non ce lo facciamo ripetere due volte) così restiamo fin dopo il pranzo, tra foto vertiginose, caccia ai souvenir (ma anche di un pile caldo…) e ai simpatici dassie, già visti a Boulders Beach. Scopriamo che questi roditori dall’aria grassoccia rappresentano un importante anello di congiunzione nella catena evolutiva discendendo addirittura dagli elefanti. Senz’altro qualcosa è andato storto, pensiamo ridendo, ma è proprio rilassante vederli spaparanzati sulle rocce riscaldati dal sole o gironzolare tra i turisti alla ricerca di cibo.

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Ci fermiamo alla tavola calda per un pranzo in alta quota, giusto per far mangiare il bambino, e assaggiamo una torta rustica ripiena di carne di struzzo… Buonissima.

Quando scendiamo a valle la gente all’entrata sembra essersi dissolta. Credo valga davvero la pena salire non solo quando è bel tempo (anche perché, in caso contrario, la cabina proprio non viene fatta partire), ma a questo punto anche di pomeriggio, magari quando il sole sta per tramontare… Deve essere uno spettacolo indimenticabile..

Per la sera gli organizzatori della conferenza hanno avuto un bella idea: una cena sociale in un locale tipico!

Il ristorante si chiama The Africa Cafè, un coloratissimo rifugio nel cuore della città dove ho trovato il personale più cordiale e disponibile che abbia mai visto!

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La cena è a base di portare tipiche, non solo del Sudafrica, ma del continente intero. Una ragazza con trucco e abito folkloristico ci introduce all’esperienza spiegando che per gli africani è un rito quello di mettersi a tavola e condividere il cibo e in nessun modo un ospite può alzarsi senza essere sazio. A quel punto lei e un altro bel ragazzo sono passati tra i tavoli con brocche di acqua calda, ciotole per raccoglierla e asciugamani per far lavare ed asciugare le mani ai commensali, quindi si sono succedute una serie infinita di assaggi di ogni tipo, dal gustoso pane del Marocco al pollo dell’Etiopia, dagli spinaci del Congo, alla papaya stufata del Senegal, il tutto innaffiato da favolosi vini locali.

 

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Si avvicina una bellissima ragazza dello staff a domandare se i commensali vogliono provare il loro make-up tradizionale. Ha pennelli e barattolini di colori lavabili tra le mani sporche di tinta, sembra una pittrice.  A fine serata la maggior parte di noi, uomini compresi, avrà il viso decorato in maniera splendida, ognuno con un disegno diverso. Per me ha scelto di disegnare dei fiori sui colori del bianco e dell’arancione, spiegando che sono bene auguranti soprattutto in cerimonie importanti quali matrimoni o battesimi…

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Nel frattempo si sono aperte le danze e i canti. Si passa da una sala all’altra al ritmo incalzante dei tamburi, voci squillanti di donne, e i piedi non riescono a stare fermi, mentre il cuore dentro batte anche lui quasi a voler tenere il tempo.

C’è qualcosa di mistico e primitivo insieme in quest’orgia di colori e suoni.

E’ il ritmo della terra e delle stagioni, è la prorompenza delle onde del mare, è la forza dei vulcani, è la preghiera e la rabbia degli schiavi.

Non si può che restare affascinati da tutto questo e il popolo africano è bravissimo a saperti coinvolgere, bambino compreso. Samuele era talmente rapito che si è fatto condurre per mano da uno dei ragazzi per ballare, completamente a suo agio, continuando a molleggiare sulle ginocchia con un sorriso stampato sulle labbra.

Magari quest’esperienza farà arricciare un po’ il naso a qualcuno definendola troppo turistica, ma io mi sono divertita moltissimo! E poi cibo e vino erano eccezionali…

Giorno 4

Il quarto giorno decidiamo di gironzolare per le strade del centro città e quindi partiamo alla scoperta di Long Street e del quartiere malese di BoKaap.

E’ una splendida giornata di sole. Parcheggiamo l’auto nei pressi di una piccola moschea e cominciamo la nostra esplorazione partendo da Long Street.

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Si tratta di una delle vie più antiche di Cape Town, all’interno del City Bowl, ovvero quella specie di culla naturale delimitata a est dalla Table Bay e circondata dalla collina di Signal, Lion’s Head e Devil’s Peak.

Long Street è caratterizzata dalla presenza di case di architettura Vittoriana, con archi, colonne e balconi di ferro lavorato e spesso colori sgargianti. Negli anni ’70-’80 ospitavano artisti bohemien e teatri che proponevano opere di resistenza anti apartheid, oggi sono per lo più adibiti a bar, ristoranti etnici, negozi di abbigliamento e oggettistica vintage.

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 Il vintage è la firma di Cape Town. Ovunque potrete imbattervi in articoli di questo tipo, vinili, gioielli, libri e sono molti i cafè decorati in questo stile che io trovo delizioso.

 

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Dopo una mezz’oretta ci rendiamo conto che Long Street non è poi così long, e in poco tempo siamo di nuovo alla macchina per andare al vicino BoKaap.

Il quartiere musulmano è caratterizzato dalla presenza di casette basse dalle facciate coloratissime e stradine di ciottoli. Pare che l’abitudine di scegliere colori accesi servisse agli abitanti per riconoscere la propria abitazione in mezzo alle altre, visto il loro totale analfabetismo. Avendo più  tempo non mi sarebbe dispiaciuto visitare il Museo di BoKaap, all’interno di una delle sue case più antiche, dove viene ripercorsa la storia del quartiere che da malese ormai è diventato multiculturale, ma sempre di religione islamica.

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Oggi le case di BoKaap fanno gola a molto acquirenti e spesso vengono acquistate a prezzi stracciati contribuendo a far perdere molto della identità culturale del quartiere, nella sua particolare trasformazione da ghetto a zona ricercata. Ben altra è la sorte delle altre township che circondano la città,  agglomerati di baracche di lamiera e fango, senza pavimenti, luce né acqua corrente, dove gli abitanti di Cape Town sono stati obbligati a spostarsi lasciando gli edifici del centro, ormai quasi del tutto disabitati, durante il duro movimento di sgombero avvenuto negli anni ’80. E’ in atto una politica di reintegro con assegnazione di nuove abitazioni, ma il processo è ancora molto lento e potrebbero volerci anni prima che la città si ripopoli del tutto.

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DSC_0268Il tempo vola, è già ora di pranzo, e affamati decidiamo di mangiare del buon sushi al Waterfront.

Questa zona organizzatissima rappresenta un po’ l’anima della città. Cape Town è prima di tutto una città di mare e, come tale, il porto non può che rappresentarla al meglio.

Prima di cercare il nostro locale facciamo un giro sulla ruota panoramica vista la prima sera. Il colpo d’occhio da lassù è qualcosa di bello e la cabina è nuovissima, comoda, abbiamo persino l’aria condizionata. Entriamo nel vero e proprio mall alla ricerca di Willoughby, il locale di sushi che ci hanno consigliato ieri alla cena sociale. Tempo di cambiare il bambino e siamo già in fila con un buon bicchiere di vino bianco ghiacciato per ingannare l’attesa. Sono bravissimi a sponsorizzare i loro prodotti, in questo caso il vino, che ovunque ho trovato eccellente, tanto che se dovessi mai tornare a Cape Town non esiterei a farmi un giro di degustazione nella zona delle Winelands.

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Quando finalmente ci fanno accomodare notiamo che il ristorante serve piatti tipici giapponesi come sushi, sashimi, maki, ma nessuno dello staff è di origine lontanamente asiatica e non c’è nessuno di colore. Come a voler sottolineare la “classe”di questo posto rispetto ad altri. E questa cosa basta per rendermeli un po’ antipatici. Sono tutti gentili, va detto, ma freddi come il ghiaccio. Il nostro cameriere non prova nemmeno ad avvisarci che stiamo ordinando troppa roba, mentre per scaldare una semplice pappa per il bambino mi toccherà alzarmi più volte per capire che fine abbia fatto.

Il pranzo, che ve lo diciamo a fare, sarà squisito. Pesce freschissimo, anche tipico di questi mari, preparato con originalità. Vi segnalo lo shottino a base di ostrica. Una flute di sakè, un’ostrica sgusciata, un uovo di quaglia crudo, caviale, erba cipollina e alghe. Ok, sembra uno schifo, ma vi assicuro che avrete la sensazione di bere un sorso di mare.

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La sera, stanchissimi e ancora sazi di questo pranzo faraonico, preferiamo restare in stanza a riposare, anche perché il bambino è crollato dal sonno e proprio non ce la sentiamo di disturbarlo. Domani siamo indecisi tra due tappe, i Giardini Botanici di Kirstenbosch o una gita al Chapman’s Peak. Molto dipenderà dal tempo… faremo decidere a lui 😉

Giorno 5

Stamattina il sole brilla alto nel cielo, decidiamo di partire alla scoperta della Chapman’s Peak Drive, una delle strade più belle del mondo dove vengono girati molti spot pubblicitari, soprattutto di automobili.

Partiamo dopo colazione, direzione Waterfront.

Anche di giorno questa zona mi piace sempre di più, e quasi per caso scopriamo questa coloratissima scala che conduce all’ospedale di Cape Town.

DSC_0111In breve siamo sulla Beach Drive, un lungo stradone che vede bellissime case da un lato e l’oceano più affascinante dall’altra. Deve essere spettacolare svegliarsi con questa vista tutti i giorni, penso con un po’ di invidia per i fortunati abitanti di questi palazzi signorili, mentre ci fermiamo a scattare qualche foto, rapiti dall’odore del mare, tra surfisti che fanno colazione prima di mettersi in acqua.

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Proseguendo oltre ci accorgeremo che tutta questa parte della città è fornita di servizi di ogni tipo, grandi parchi, piste da jogging e ciclabili, locali, spiagge pubbliche. Ci ripromettiamo di tornare qui per il pranzo. Nel frattempo si sale, oltre la Signal Hill, lungo la Victoria Drive, dove si susseguono una serie di località dalla vista mozzafiato, come Camps Bay, Clifton, Bantry Bay, tutte caratterizzate dalla presenza di lussuosissime ville abbarbicate lungo la scogliera.

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Per raggiungere il Chapman’s Peak vero e proprio bisogna pagare un piccolo pedaggio in entrata e in uscita, circa 40 Rand per davvero pochi chilometri, ma valgono assolutamente la pena, se si considerano i magnifici scenari che ad ogni curva si spalancheranno di fronte a voi, o meglio ancora, ai vostri piedi. Dall’altra parte della Chapman’s Peak Drive lo scenario cambia completamente. Non più brullo, per non dire desertico, ma valli verdi e rigogliose, vigneti fertili e spiagge di sabbia bianca purissima.

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Quando torniamo indietro siamo affamati. Non ce la facciamo a pranzare lungo la Beach Drive, Sami scalpita, così ci fermiamo prima, a Hout Bay, facendo una breve deviazione.

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Qui lo scenario è da cartolina d’epoca. Una bella spiaggia chiara dove un ragazzo dalle mani abilissime sta forgiando una scultura di sabbia che ritrae i Big Five. Molti i bambini che gli girano intorno, ammirati, corrono in tondo sghignazzando a voce alta, facendo sollevare un gruppo di gabbiani, mentre un maestro di surf tiene lezione ai suoi piccoli allievi, ora alzandosi, ora abbassandosi sulla tavola, facendo vedere i movimenti per bene.

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DSC_0217Un molo, prima di condurre a un minuscolo quanto pittoresco porticciolo, funge da passeggiata di fronte a un locale molto grande, a due piani, si chiama Mariner’s Wharf. L’insegna è ricavata da una barca vera appesa lungo la terrazza panoramica al primo piano, dove scopriremo uno dei migliori ristoranti specializzati in pesce fresco al mondo (e a dirlo non siamo noi.. c’è un articolo di giornale messo sotto teca nel quale viene annoverato tra i cinque migliori), mentre sotto c’è una friggitoria dove servono fish’n’chips.

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C’è musica, si alternano chitarristi dalle giacche stravaganti a vere e proprie jazz band (ah, il jazz, la colonna sonora di questi giorni a Cape Town!).

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All’ingresso del porto un uomo seduto bordo banchina richiama gente a gran voce “Come here sir! Come here madame!“.

Vedo degli strani movimenti in acqua. Qualche veloce creatura nera e lucida sguscia fuori dal mare per poi rimmergersi. Sono leoni marini, ne conto almeno quattro, e l’uomo che richiama i turisti è riuscito ad ammaestrarli tanto da averne creato una vera e propria attrazione.

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Quello più grande si chiama Mr. Brown e nonostante la stazza è molto agile a saltare fuori per prendere brandelli di pesce puzzolente a volte direttamente dalla bocca del suo maestro. L’uomo ci spiega che è un pescatore e che questi splendidi animali erano soliti salire a bordo per mangiare finché, giocando e regalando cibo come ricompensa, è riuscito ad ammaestrarli. È impressionante,  Mr. Brown si fa accarezzare il suo bel capoccione con lo sguardo beato di chi aveva proprio bisogno di una bella grattatina, come un cagnolino. L’uomo ci spiega che deve moltissimo a queste creature perché gli permettono di guadagnare qualcosa con le offerte dei turisti riuscendo a mandare i suoi due figli a scuola. Non scorderò mai il suo volto, un viso segnato dalla fatica e dal sole, le rughe profonde che gli solcavano i lineamenti e poi gli occhi, profondi, di un’umanità disarmante e la loro espressione particolare, un misto di tristezza, malinconia e dolcezza.

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Con estrema difficoltà riusciamo a dividere Sami dal suo amico baffuto, e salutato “Gap” (lo abbiamo ribattezzato così non sapendo il suo nome), saliamo al ristorante per mangiare un boccone, ma ci sembra di essere a bordo di una nave. Gli interni sono tutti in legno, al posto delle finestre oblò e boccaporti e lo staff, tutto in divisa, sembra l’equipaggio di un’imbarcazione.

Una piacevole passeggiata postprandiale e siamo pronti per tornare indietro, lungo la strada fatta all’andata, ma non possiamo fare a meno di fermarci per guardare di nuovo queste onde spaventose andare a infrangersi contro gli scogli, creando delle infinite distese di schiuma. Il mare sembra avere una coperta bianca sopra di sé, un manto spumoso cangiante a seconda della luce. Uno spettacolo della natura.

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Prima di tornare in albergo ci piacerebbe fare un salto nel quartiere di Woodstock, povero sobborgo alla periferia di Cape Town, dove la creatività dei suoi abitanti ha dato vita ad alcuni tra i murales più belli della città. Il traffico che troviamo, però, ci costringe a cambiare programma e stanchissimi preferiamo tornare in stanza per riposare un po’. Domani è il nostro ultimo giorno qui… sentiamo già salire un po’ di malinconia…

Giorno 6

Stamattina Vale sarà impegnato al centro conferenze quindi ne approfitto per recuperare un po’ di forze restando in camera con il piccolo il quale, profondamente addormentato, mi permette di buttar giù qualche riga.

Alle 14:00 papà torna a casa e anche se il tempo non è dei migliori, anzi, minaccia di piovere, con i nostri amici saliamo sulle colline a est di Cape Town per visitare i Giardini Botanici di Kirstenbosch.

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Fondato nel 1913, questo importante giardino ospita circa 7000 specie autoctone e, come tale, è unico nel suo genere. È enorme, sono quasi 60 ettari, ma la visita è semplificata dalla presenza di cartelli che vi sapranno indicare il cammino tra piante di origine desertica o da habitat umido e lussureggiante. E tutto in cambio di una piccola offerta.

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All’interno c’è una esposizione permanente di sculture, mentre ogni domenica è possibile seguire concerti en plein air.

Mi piace che gli abitanti della città lo considerino il loro parco, e anche oggi, nonostante la giornata uggiosa, sono moltissimi quelli che se ne stanno all’aria aperta a rilassarsi facendo un picnic.

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Ci fermiamo per un tè caldo al baretto accanto l’ingresso. Gentile come sempre il personale che vedendo il bambino ci regala una barretta di cioccolato. Diamo un’occhiata al bellissimo negozio di souvenir dove si possono trovare tanti articoli per la casa, di abbigliamento, giocattoli, tutti prodotti artigianalmente per aiutare le comunità locali. E i prezzi sono ovviamente convenientissimi vista la valuta…

Torniamo in albergo giusto il tempo di far sfogare la pioggia, quindi usciamo per andare in centro a cena nel famoso ristorante Mama Africa.

Si trova lungo Long Street, un originale palazzo ad angolo le cui facciate sono completamente dipinte e affrescate con i caldi colori della terra. Il simpatico bodyguard all’ingresso ci demoralizza un po’ quando ci spiega che molti prenotano un tavolo addirittura un mese prima e noi che siamo in quattro più un bambino nutriamo ben poche speranze di trovare posto. Ci raggiunge il manager del locale, un giovane ragazzo molto gentile, che ci invita a tentare una altra volta, visto che gli unici posti disponibili sono al banco del bar e per di più vicini alla band che si sta esibendo dal vivo. Suoni di percussioni provengono dall’interno, ovattati, come l’atmosfera che sembra regnare qui dentro, posso indovinarla scrutando tra le vetrine, luci soffuse e odore gradevolissimo di cibo. Purtroppo domani partiamo quindi non avremo altre possibilità, ma ringraziamo il proprietario e torniamo alla macchina, parcheggiata a pochi metri da qui.

Torniamo nella zona del Waterfront, a esplorare la parte aldilà della ruota panoramica, ricca anche essa di locali e bei negozi di souvenir. C’è anche un pittoresco ponte levatoio tutto illuminato a festa che permette l’accesso alla banchina del porto dove ci si può imbarcare per raggiungere Robben Island.

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Accanto al pontile per gli imbarchi fate caso alle dolcissime foche barbute, tipiche del Sud Africa, che allieteranno l’attesa in coda. A quest’ora la maggior parte se ne sta pigra a oziare satolle di pesce, ma qualcuna si concede una nuotatina notturna al riparo del molo.

Cominciamo ad avere fame, quindi entriamo nel vivace mall per scegliere il ristorante dove mangiare. Il locale si chiama Cafè Grill, un posto accogliente con tavoli in ebano e interi pezzi di biltong in vetrina…Slurp!

Ordiniamo della carne squisita, si potrebbe tagliare con lo sguardo, e assaggiamo anche il facocero e il coccodrillo, quest’ultimo per me sorprendentemente buono e saporito.

Penso con incipiente nostalgia che domani a quest’ora saremo in viaggio di nuovo verso casa e nonostante la bella serata mi prende un po’ di tristezza.

Tornati in camera ci mettiamo subito a fare i bagagli. Domani il check out sarà alle 10:00 (argh!!) e abbiamo timore di dimenticare inevitabilmente qualcosa, soprattutto del bambino. Stremati andiamo a dormire all’una passata. Con poca, pochissima voglia di chiudere le valige.

Giorno 7

Non si può descrivere il magone che mi è preso stamattina. Passa tutto in fretta, sveglia, colazione, check-out, ma il pensiero di dover tornare a casa mi deprime.

Con i nostri piacevolissimi compagni di viaggio, un valore aggiunto alla nostra già splendida esperienza, carichiamo i bagagli in auto e facciamo un giro alla ricerca degli ultimi souvenir al porto.

Andiamo a trovare le foche vicino l’imbarco per Robben Island e facciamo un salto da Mug&Bean, fantastico posto per bere un caffè come si deve, quindi ci incamminiamo verso l’aeroporto con largo anticipo, temendo la solita lunga coda di traffico.

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La foto è di Fabio e Francesca.

Piove, come nei più classici degli addii, ma in cuore nostro lo sappiamo che questo è solo un arrivederci.

 Il Sudafrica mi ha completamente rapita, conquistata.

Valerio era stato tante volte a Johannesburg e aveva provato a raccontarmi le sue emozioni, ma come spesso succede alcune esperienze bisogna viverle in prima persona per capire.

Questo sarà un arrivederci perché vogliamo assolutamente tornare quando Samuele sarà più grande per gustarci con lui l’avventura di un safari.

Vogliamo tornare perché una volta che hai conosciuto questa natura, questi paesaggi, non puoi più farne a meno.

Perché di questa terra e del suo popolo non ne hai mai abbastanza e, se malauguratamente fosse così, significherebbe essere stanchi di tutta la generosità e il calore che un essere umano può offrire, capace di condividere tutto o niente, se niente è l’unica cosa che possiede.

Torneremo in Sudafrica e a Cape Town con Samuele più grande, perché piuttosto che avere un’infarinatura generale (che per carità, meglio che niente), ci piacerebbe approfondire.

Passare più tempo a Capo di Buona Speranza, magari salendo fin su al faro (troppo impegnativo a piedi e con il bambino in braccio..), andare a gustare vino alle Winelands, visitare Robben Island, passeggiare lungo la Beach Drive, seguire allo stadio una partita degli Springbok, la loro coloratissima squadra di rugby, ascoltare un concerto dal vivo al Kirstenbosch…

Pensiamo che tornare a Cape Town sia inevitabile. Non per niente è la Mother City. E uno da una madre, prima o poi, torna sempre.